Politica e Società-13

(ateismo e agnosticismo inclusi...)

2016 dc

commenti, contributi e opinioni

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kynoos@jadawin.info

Ho unificato le due precedenti pagine di Politica e Sociale perché, in fondo, si occupavano degli stessi temi. Per non appesantirne il peso nel sito le ho numerate progressivamente a partire da quella con notizie e fatti più vecchi.

In questa pagina ci sono testi con data 2016 dc, il più recente all'inizio.


Con sommo gaudio pubblico quanto inviatomi oggi stesso in e-mai da Dino Erba, 8 Novembre 2016 dc:
Referendum costituzionale
Valore e significato dell'astensione attiva e operante
«Che l'astensione sia maggioritaria nelle varie votazioni anche ormai in Italia, non ci piove ... il problema è che ad essa non corrisponde quasi per nulla (tranne settori come la logistica, peraltro a elevata componente immigrata) un reale movimento di massa, purtroppo; quindi questa è la questione più importante (che poi fa il gioco dei media nell’accusa di qualunquismo … ma questa è solo una conseguenza): i proletari, sfiduciati, non votano ... ma nemmeno si muovono ... e c’è il pericolo che inizino a diventare vittime della propaganda nazionalista e razzista che si sviluppa, anche per giustificarle, parallelamente alle aggressioni militari ai paesi poveri (ma spesso ricchi di risorse) a cui partecipa anche l’Italia».

Queste affermazioni condensano le obiezioni che sono state mosse alla mia prospettiva di «svuotare le urne e di riempire le piazze», rendendo l’astensione «attiva e operante». A differenza di altri obiettori, l’autore non fa alcuna concessione al fronte del NO, avanza solo forti perplessità sull’atteggiamento politico del proletariato italiano.

Per prima cosa, a tutti i miei obiettori (in buona o in cattiva fede) rivolgo l’invito a guardare oltre il cortile di casa propria. Dovrebbero allora accorgersi che la crisi economica globale sta disgregando il sistema capitalistico nel suo complesso. Lo scenario generale è poi sconvolto da una sequela di guerre e di catastrofi naturali che si ripercuotono con effetto domino nei rapporti sociali complessivi.

Aree sempre più vaste del pianeta vivono profondi dissesti, le cui conseguenze sono i crescenti flussi di profughi che investono l’Europa e, in particolare, l’Italia.

Con venti di tempesta sempre più forti e vicini, nulla è come prima. Anche i comportamenti politici mutano, anche in un Paese di vecchi succubi della tradizione, come l’Italia. Ovviamente, in Italia, i passi sono più lenti. Ciò non di meno, alle ultime elezioni l’astensione ha sfiorato il 40%, dopo decenni di fregola schedaiola. Ciò vuol dire che una significativa parte dell’elettorato non si riconosce nella pur vasta gamma di partiti in lizza, di ogni risma e colore. E questo, forse, significa che molti elettori rifiutano non solo i partiti ma anche le istituzioni.

Tra i miei obiettori (molti over 50 …) aleggia probabilmente una certa nostalgia per gli anni Settanta. Per quanto quegli anni espressero una forte conflittualità sociale, non dobbiamo  dimenticare che, ciò nonostante, in quegli anni l’astensione fu sempre sotto il 10%. Non solo: nel 1975-1976, il Pci «rischiò» di superare la Democrazia cristiana. Ed era il Pci di quel Enrico Berlinguer che sosteneva il compromesso storico con la Dc (ossia con il clientelismo democristiano), predicava agli operai i sacrifici per la ripresa economica (i risultati si son visti!) e caldeggiava la criminalizzazione di ogni dissenso politico (armato o meno).

Sono nostalgie da over 50, su cui sarebbe bene stendere un velo pietoso. Ma la pietà lasciamola ai cristiani… e vediamo cosa nasconde il pietoso velo.

Quelle nostalgie rivelano una profonda sfiducia nell’autonomia politica dei proletari. Nonché una delusione di fronte all’evoluzione di una crisi economica che non si traduce immediatamente in una risposta politica. Una risposta che, il più delle volte, dovrebbe soddisfare schemi politici ormai obsoleti.

Sotto sotto (ma non tanto) emerge l’attaccamento allo stato di cose presente (il capitalismo) che il mutamento (la rivoluzione) potrebbe pregiudicare.

In sostanza, i miei obiettori sono prigionieri della concezione politicante dei rapporti sociali, svelando di conseguenza quello spirito angusto che Marx, 172 anni fa, così stigmatizzava:

«Una rivolta industriale può essere parziale fin che si vuole; ciò nonostante racchiude in sé un’anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole; ciò nonostante cela sotto il suo aspetto più colossale uno spirito angusto».

Oggi, di fronte allo sfacelo del modo di produzione capitalistico, è inutile e dannoso far sfoggio di realismo politico, trincerandosi nella difesa del «meno peggio», col solo risultato di disarmare i proletari ancor prima della battaglia.

Bisogna fare il contrario: è ora di dire forte e chiaro di farla finita col lavoro, di abolire la proprietà privata, di spazzar via Stati e Nazioni…

Solo parlando chiaro si può delineare una prospettiva realistica. Il resto sono chiacchiere reazionarie.

Dino Erba, Milano, 8 novembre 2016.

In allegato (nel link, nota mia), un articolo di «Rivoluzione Comunista» che esamina le implicazioni di fondo della riforma e del referendum. Per la buona pace dei cacadubbi.


In e-mail da Dino Erba il 29 Settembre 2016 dc:

Ricevo, condivido e diffondo.
Dino
Rivoluzione!

Tra chi disseppellisce Berlinguer e gli fa dire SI
e chi balla con Vasco al ritmo del suo no
il proletariato paga senza neanche l'intenzione di reagire.
 
Ogni tanto ci chiamano a votare.
Per le loro elezioni.
O per i loro referendum.
 
Già, perchè per noi il voto è più che inutile.
Dannoso.
 Eppure ci dicono che è un diritto-dovere.
Votare, partecipare.
Reggere il moccolo ai loro giochi politici.
Puntualmente contro di noi.
 
Una volta per eleggere i “nostri” rappresentanti.
Che poi puntualmente sono i loro “rappresentanti”.
Un'altra per dire si o no a qualche loro riforma.
Che poi è una loro riforma contro di noi.
Per giunta già approvata nella realtà.
 
Come questa sulla costituzione.
Che noi dovremmo riformare o difendere.
Con il si o con il no.
Senza contare nulla, comunque.


Perché le decisioni sono già state prese.
Dai padroni europei ed italiani.
Ai quali si adeguano i politici, del si e del no.
Senza tener conto della nostra vita e delle nostre idee.
 
Anche sulla costituzione,
quella del lavoro salariato,
della falsa legge uguale per tutti,
del falso ripudio dela guerra,
della falsa difesa della donna e dei bambini.
 
E del vero pareggio di bilancio.
 
Una costituzione contro di noi.


Per questo noi non voteremo al referendum.
Sarà inverno, ed al mare farà freddo.


Andremo in montagna!


Noi non facciamo politica.
Non abbiamo mediazioni da praticare
o sponde istituzionali da cercare,
ne’ siamo interessati al “civile dibattito” tra minoranze politiche organizzate espressioni di interessi di classe e frazioni di classe.
Non abbiamo nulla da chiedere a chi non può e non vuole darci nulla,
e a chi lo rappresenta, perché difendono insieme la loro società basata sul profitto e sul nostro sfruttamento.
Non abbiamo da gareggiare elettoralmente con chi ci uccide in guerra, sul lavoro, o, piu’ lentamente,
con lo sfruttamento e l’abbrutimento capitalista.
Non abbiamo avversari politici con cui dibattere e confrontarci,
ma nemici di classe.
Contro cui organizzarci e lottare!
 
C'è chi dice Si C'è chi dice NO
C'è chi dice RIVOLUZIONE !
 
PER UNA POSIZIONE AUTONOMA
DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO
CONTRO IL REFERENDUM,
LA COSTITUZIONE ANTIOPERAIA,
LA DEMOCRAZIA BORGHESE.
 
Da sempre, tutti i politici uniti nell’afflato della loro“società civile”, ci hanno invitato ad esercitare il diritto dovere del voto, di destra, di sinistra, di centro, di governo, di opposizione, basta che si voti.

Adesso stanno caricando l’ennesima chiamata al voto referendario, oltre che della solita desueta ideologia della “consultazione diretta del popolo”, anche di significati e valenze (riformiste o resistenziali) che nulla hanno a che vedere con le reali motivazioni alla base della modifica costituzionale e del sistema di voto.

L’estremo trasversalismo dei 2 schieramenti del si e del no, mascherato dallo “scontro” tra riformatori moderni e resistenti amanti della “costituzione piu’ bella del mondo”, esprime invece una reale aspra lotta tra frazioni borghesi piu’ o meno favorevoli all’integrazione globalizzatrice o al mantenimento dello status quo che vede un nord europeo ed un centro sud ancora legato a logiche clientelari.

In questo scontro interborghese intervengono e si posizionano i vari grumi profittuali in lizza per il si o per il no, dal governo obbediente alle ricette snellenti e funzionalizzatrici di marca Europea ai grandi gruppi industriali interessati ad una velocizzazione sburocratizzante dello stato e della pubblica amministrazione, dalle regioni mangiasoldi sfavorevoli ad un accentramento di poteri ( e di denaro!) nelle leve dell’esecutivo ai partitoni di destra e di centro legati alle camarille sudiste.

Uno scontro tra il “partito della globalizzazione” e dell’adeguamento italiano agli standard di sistema Europei e il “partito dello status quo”, nascosto dallo “scontrino ideologico” tra “partigiani costituenti” e “riformisti conseguenti”.

A questa ciccia si aggrappano, l’un contro l’altro schierati, la pletora iperpoliticista dei turbocapitalisti e degli euroscettici, con i loro multipli utilizzi politici e sindacali.

Già, perchè la stessa ristrutturazione del modello contrattuale pressata da una Bruxelles interessata ad un assetto centrato sulla contrattazione aziendale e sulla re-distribuzione della produttività, rientra nel “patto per la crescita” in gestazione tra sindacalai per il no e governo per il si.

Dai mercati ai sindacati verrebbe da dire dove il si darebbe una spinta agli investimenti stranieri in un paese “moderno” garantendo comunque la riapertura del dialogo tra le “parti sociali”, il no un rimescolamento di carte nella compagine dell'esecutivo ed una riapertura dei giochi per poltroncine avide di maggioritario.

Insomma, comunque vada, lor signori padroni e servitori cascano inpiedi, scaricando crisi e riforme contro di noi.

Caso a se, spiacevole quanto sorprendente, è che propaggini di “movimento antagonista” partecipino a questa partita truccata, nascondendo la propria insipienza politica ed il proprio codismo dietro slogan (NO-SOCIAL/NO-OPERAIO….) di difficile comprensione ma, soprattutto, di completa inutilità per la lotta di classe.

Evidentemente i politicanti di tutti i colori non hanno ancora capito che la politica, in ultima analisi, è espressione determinata dal movimento reale dell’economia, e che una scheda in un’urna non può modificare o fermare processi che trovano nel mercato mondiale la proria storica sedimentazione e nelle istituzioni dei blocchi continentali le prorie sedi formalizzatrici e vincolanti per gli stati.

E questo assunto teorico sulla determinazione del movimento politico dal movimento della materia vale sempre, e dappertutto: alle elezioni come al referendum, come nelle sovranità nazionali e monetarie.

In una parola, il movimento reale impone le sue leggi e batte i suoi tempi incurante delle “battaglie politiche” che possono frenarlo, ma non impedirne un compimento che solo una rivoluzione sociale potrebbe arrestare.

Ed infatti, Brexit, euroscettici di destra e di sinistra, risultati referendari ed elettorali stanno provocando una sorta di “stop and go”, stanno rallentando rendendolo più faticoso e contraddittorio, il processo di composizione unitaria del blocco U.E., ma, con ogni probabilità, non lo arresteranno, perché la forma del blocco continentale è l’unica forma adeguata alla competizione interimperialista nell’epoca della planetizzazione capitalista.
 
È chiaro quindi che un’intervento autonomo e di classe in questa situazione, più che attardarsi nell’utopico sogno di “fermare il mondo perché vogliamo scendere”, dovrebbe stare nel “movimento reale che supera lo stato di cose presenti”, cioè sfruttare le opportunità che, seppure con rapporti di forza sfavorevoli, si pongono nel corso della lotta tra le classi.

E oggi queste opportunità si chiamano diffusione del modo di produzione capitalista all’intero pianeta con conseguente formazione, contaminazione migratoria e concentrazione metropolitana del proletariato.

Ed invece, proprio nel momento storico-politico in cui grandi masse, la maggioranza dei cittadini italiani ed europei, perdono fiducia nell’istituto truffaldino del suffragio universale rendendo il “partito dell’astensione” 1° partito, latita l’intervento del movimento rivoluzionario a fronte delle rincorse elettoralistiche fuori tempo massimo delle “masse critiche” al soldo di qualche magistrato-sindaco o di qualche finto partigiano.

Occorre denunciare con forza l’opera di corruttela ideologica e di “ritorno all’ovile elettorale” dei movimentisti senza movimento, raccogliendo attorno ad una posizione autonoma il coraggio e l’impegno di quanti non si riconoscono in falsi diritti-doveri, criticando la costituzione antioperaia insieme all’intera architettura democratico borghese.

Pino

In e-mail il 2 Giugno, pubblicato il 24 Ottobre 2016 dc:
Lotta politica e lotta economica:
una divisione contro natura

La recente spaccatura del SiCobas e la conseguente nascita del SolCobas pone all’ordine del giorno il rapporto tra la lotta economica e la lotta politica. È una vecchia storia che si trascina da anni ma che con l’attuale crisi del modo di produzione capitalistico diventa fondamentale per dare una prospettiva alle lotte operaie e proletarie che, inevitabilmente, scoppiano. Ho preso spunto dal documento di nascita del SolCobas del 12 giugno 2016 [Ai militanti del sindacalismo di classe e dell’autorganizzazione operaia (in allegato)] e ho rivisto un mio vecchio articolo, dove abbozzavo le questioni ora venute pesantemente alla ribalta. Ho cercato di dare una visione generale alle questioni poste dai compagni del SolCobas. Molte cose restano ovviamente da approfondire. Lo farò volentieri con chi ha le carte in regola per farlo.
Dino Erba

Se la storia non è un’astrazione, ma è il frutto di rapporti materiali tra le classi sociali, dobbiamo ricondurre la divisione tra lotta economica e lotta politica a una precisa fase storica, alla fase di inizio e sviluppo del modo di produzione capitalista in Europa e in Nord America, ovvero dalla fine del Settecento all’inizio Novecento. In questa fase, le lotte «economico-sindacali» del nascente movimento operaio si combinavano con lotte politiche democratico-borghesi, per la piena democrazia, contro i residui (privilegi) di origine feudale. La lotta politica, in questa fase, era separata dalla lotta economica, in quanto la lotta politica era condotta in alleanza, diretta o indiretta, con la borghesia democratica. Ovviamente, le ricadute politiche favorivano la lotta economica, consentendo agli operai più ampie possibilità di organizzazione sindacale (società di mutuo soccorso, cooperative, ecc.).

Nascita del movimento operaio europeo

Per il moderno movimento operaio, dopo la «congiura degli Eguali» di Babeuf (Francia, 1796), l’esordio politico fu il movimento Cartista inglese, sorto nel 1838 sulla base di un documento (la «carta»), articolato in sei punti, che rivendicava il suffragio universale maschile, elezioni annuali a scrutinio segreto, revisione delle circoscrizioni elettorali e una rappresentanza operaia in parlamento, che sarebbe stata permessa grazie all’abo-lizione di limiti di censo per i candidati e dall'introduzione dell’indennità parlamentare.

Queste rivendicazioni furono sostanzialmente riprese da Friedrich Engels e Karl Marx quando, nel 1847, scrissero il Manifesto dei comunisti.

Nella seconda meta dell’Ottocento, il movimento operaio di orientamento socialista (Prima e Seconda Internazionale) fece propria la lotta per i diritti democratici. Tuttavia, mentre la Prima Internazionale (o Associazione internazionale dei lavoratori, 1864-1876) fu un’organizzazione unitaria, politica ed economica (e questo orientamento vale sia per Marx che per Bakunin, nonostante i dissensi), la Seconda Internazionale (o Internazionale socialista, 1889-1914) fu un’organiz-zazione «bicefala» (o schizofrenica): da una parte i partiti politici che si definirono social-democratici e dall’altra i sindacati operai. Nonostante le buone intenzioni, la coabitazione tra partiti e sindacati fu contraddistinta da crescenti contrasti, dal momento che i sindacati divennero la fucina delle pratiche di compromesso sociale che alimentavano la corrente riformista nei partiti (via parlamentare al socialismo). Questa situazione, fin dall’inizio, rendeva assai problematica la tesi di Lenin che avrebbe voluto fare del sindacato la cinghia di trasmissione tra la classe operaia e il partito rivoluzionario.

America e Russia a confronto

Negli Stati Uniti, dove il modo di produzione capitalista non dovette fare i conti con preesistenti formazioni economico sociali (o meglio, la questione fu risolta con lo sterminio degli indigeni), il movimento operaio assunse forme organizzative indipendenti, in cui gli aspetti economici non erano separati da quelli politici. L’esempio più compiuto furono gli Industrial Workers of the World (Iww  o wobblies), un’organizzazione nata nel 1905 a Chicago sull’onda di precedenti lotte operaie.

Al contrario, in Russia, la lotta contro il dispotismo zarista, segnò profondamente la nascita di una tendenza socialista con pretese marxiste (Partito Operaio Socialdemocratico Russo, Posdr), in cui confluirono tutte le contraddizioni irrisolte della Seconda Internazionale.

Nonostante queste contraddizioni (ma forse proprio per questo), in Russia sorsero ed ebbero grande importanza politica i soviet (i consigli), organismi di autorganizzazione politica ed economica degli operai e dei contadini. La loro nascita, nel 1905,  avvenne al di fuori di ogni iniziativa del Posdr e anche della sua ala sinistra, i bolscevichi di Lenin (anzi, all’inizio i soviet furono osteggiati).

Nel 1917, i soviet furono i protagonisti della rivoluzione. Solo dopo il 1918, i bolscevichi riuscirono a sottometterli, prima al partito, poi al governo e quindi allo Stato cosiddetto sovietico. E i soviet divennero dei gusci vuoti[1]. Ma ormai questa esperienza di autorganizzazione proletaria aveva raggiunto una risonanza che investiva l’Europa intera e si connetteva con le lotte degli Iww  americani.

In Russia, intanto, i bolscevichi avevano ripristinato la legge che subordinava gli operai al partito dei «rivoluzionari di professione», ovvero gli intellettuali che poi sarebbe diventati i burocrati. Ma prima, dovettero soffocare nel sangue ogni forma di ribellione e dissenso, come la cosiddetta makhnovcina in Ucraina (novembre 1920) e la rivolta di Kronštadt (marzo 1921).

Sfruttando l’entusiasmo suscitato dalla rivoluzione in Russia, i bolscevichi ebbero una posizione egemone nella Terza Internazionale (la cosiddetta Internazionale comunista, 1919-1943) e riuscirono a imporre la tesi che separava partito e sindacato, con la «teoria» leninista della «cinghia di trasmissione». Presto, questa concezione venne fatta propria da molti esponenti del movimento operaio internazionale, quasi fosse un articolo di fede. Le conseguenze furono ovunque deludenti e a volte deleterie; riguardarono comunque esperienze limitate nel tempo e nello spazio, con buona pace dei leninisti inossidabili che, in verità, solo in Italia hanno ancora qualche tifoso.

Nella logica dell’ipotesi leninista, l’ultima spiaggia è rappresentata dalla prospettiva di costruire o restaurare il sindacato «rosso e di classe», ancora oggi sostenuta da alcuni epigoni della Sinistra comunista «italiana (cosiddetta bordighista). A mio avviso, il sindacato può essere «rosso e di classe» solo se ha una visione politica «rossa e di classe». In questo caso,  viene però meno la divisione tra lotta politica e lotta economica. Quello che si getta dalla porta rientra dalla finestra.

Nella realtà storica del movimento operaio organizzato, i partiti di stampo leninista ebbero vita breve e stentata, anche perché presto (1923) divennero uno strumento dello Stato sovietico che fece strame degli interessi operai. Per cui è inutile dedicargli troppa attenzione. Ci sono esperienze operaie ben più ampie e ben più incisive.

Oltre che negli Usa, situazioni assai significative si ebbero in Germania, Olanda, Gran Bretagna e, parzialmente, in Italia e in Francia, dove alla fine della guerra (1918-1921) sorsero tendenze consiliari che cercavano di unire (o perlomeno di coniugare) lotta economica e lotta politica.

Queste esperienze consiliari furono tutt’altro che omogenee, ma non ebbero modo di confrontarsi per dare spazio alle linee di convergenza[2]. In Italia, ci fu la reazione fascista che assestò la mazzata finale al movimento di occupazione delle fabbriche (estate 1920), già guastato dai riformisti del Psi e della Cgl. Ma, soprattutto, ci fu la bolscevizzazione dei partiti comunisti della Terza Internazionale che, ingabbiandoli negli schemi bolscevichi, castrava le possibilità di confrontare le diverse esperienze. Frutto, peraltro, di situazioni socio-economiche assai differenti da quelle della Russia.

La soluzione anarco-sindacalista

Il movimento operaio di indirizzo politico anarchico aveva toccato con mano i limiti insiti nella divisione tra lotta economica e lotta politica (partito-sindacato). All’inizio del Novecento cercò di trovare una soluzione, ma seppe fornire solo un rimedio temporaneo, non risolutivo: un rimedio «sintomatico», che cura i sintomi ma non le cause. Il rimedio fu l’anarco-sindacalismo, una soluzione che strada facendo smarrì gli originari contenuti politici rivoluzionari, approdando a un sindacalismo radicale, ma pregno di ambiguità che, in Spagna, non ressero di fronte alla repressione statal-stalinista del maggio 1937.

Ciò non toglie che in Spagna l’attività dei Comitati di difesa della Confederación Nacional del Trabajo (la Cnt), prima e durante la guerra civile (1933-1938), segnò una delle maggiori (se non la maggiore) esperienza di autonomia proletaria[3].

Se è lecito paragonare le grandi cose con le piccole cose, si potrebbe dire che l’attuale sindacalismo di base (Usi, Cub, Usb, SiCobas …) si dibatte oggi in Italia nella medesima impasse politica del vecchio anarco-sindacalismo … oltre che del vecchio leninismo.

Nascita e declino degli Iww

Anche negli Stati Uniti d’America, l’esperienza degli Workers of the World (Iww) raggiuse momenti di autonomia proletaria paragonabili a quelli dei Comitati di difesa della Cnt. La situazione americana era però assai diversa e merita alcune considerazioni che hanno valenze generali per il moderno movimento operaio organizzato.

Una critica superficiale liquida gli Iww dicendo che, alla fin delle fiere, sono stati sconfitti per mancanza di una solida organizzazione (come se i partiti leninisti avessero ottenuto qualche risultato!).

Sicuramente gli Iww sono stati sconfitti, ma vediamo come avvenne la loro sconfitta e quali conseguenze ebbe.

1) Gli Iww affrontarono per primi una situazione capitalista oggettivamente assai più avanzata di quella allora prevalente. Di conseguenza, si trovarono isolati dal movimento operaio internazionale, con le eccezioni dell’Australia (poca cosa) e, parzialmente, di Germania, Olanda e Gran Bretagna. Ma quando in questi ultimi Paesi presero piede le tendenze consiliariste e anarco-sindacaliste vicine agli Iww (1918-1920), negli Usa gli Iww entravano nella fase declinante.

2) Negli anni 1917-1919, gli Iww (e in generale il movimento operaio radicale Usa) subì  una violenta repressione «preventiva», che l’Europa avrebbe conosciuto di lì a poco: in Italia con il fascismo (dal 1920-1922), in Germania con il nazismo (dopo il 1931), in Spagna con il franchismo (1936). Nel 1930, in Unione Sovietica, era stato istituito il lavoro coatto (il GuLag). Dopo di che, a livello internazionale, gli operai rivoluzionari ebbero poche carte politiche da giocare, in una partita che ormai era truccata.

3) Infine, gli Iww espressero (loro malgrado) una tendenza oggettiva che rappresentava gli operai in quanto tali, organizzati sulla base della categoria (come per es. la Uaw, United Auto Workers, sindacato del settore auto, nato a Detroit nel 1935[4]), contrapposta al vecchio sindacalismo di mestiere (professionale) dell’American Federation of Labor (Afl, nata nel 1886), espressione delle aristocrazie operaie. Di conseguenza, gli Iww andarono incontro, sottolineo loro malgrado, all’evoluzione del modo di produzione capitalista (espresso dal fordismo e dalla politica del New Deal varata da Keynes & Roosevelt), favorendo la nascita del moderno sindacalismo di categoria (Cio, Congress of Industrial Organization, nato nel 1938). Pur con i suoi limiti, il Cio durante la guerra proclamò scioperi in aperto contrasto con le direttive di «tregua sindacale» imposte dall’amministrazione Roosevelt con l’appoggio  degli stalinisti del Pcusa.

In seguito (1955), il Cio si unì all’Afl (Afl-Cio), dando vita a un «partito politico» (o meglio a una lobby), che da allora opera nel Partito democratico, come in Gran Bretagna le Trade Unions operano nel Partito laburista, pur nella divisione dei compiti.

Questi risultati furono raggiunti, non solo grazie alla posizione predominante dell’imperialismo anglo-americano, ma anche attraverso lotte senza esclusione di colpi che, persi i connotati di classe, assunsero quelli del racket (vedi le vicende della Federation Interstate Truckers-Fist[5]).

Dopo la crisi del 1929, tutti i partiti politici borghesi (di destra e di sinistra: fascismo, socialdemocrazia, stalinismo) dei Paesi capitalisti avanzati (ma non solo) riuscirono a prevaricare i sindacati operai e li sottomisero alle proprie strategie che, in una prima fase (anni Trenta-Sessanta), assunsero contenuti sociali progressisti (il welfare), alimentati alla fine delle Seconda guerra mondiale da un ciclo economico espansivo (la Golden Age).

Nel lessico leninista, questa particolare fase del movimento operaio occidentale viene definita col termine tradeunionismo, poiché le premesse furono poste all’inizio del Novecento dai sindacati inglesi (le Trade Unions) e dal Partito laburista, con lo scopo di coniugare gli interessi del lavoro con quelli del capitale, in una prospettiva riformista.

Fine del welfare (e del tradeunionismo)

Dalla metà degli anni Settanta, ossia da quando siamo entrati un ciclo economico declinante, i margini politici del welfare (e quindi anche del tradeunionismo) si sono ridotti ai minimi termini, fino a scomparire. Tuttavia, i proletari non hanno scardinato (anche se contestano) la subordinazione dei sindacati ai partiti borghesi. Anzi, proprio in quel periodo, i sindacati sono diventati una componente fondamentale della politica borghese, soprattutto in Italia, accettando prima la «politica dei sacrifici» (1975, Lama-Berlinguer) e poi la concertazione (1993, Ciampi-Prodi-Cofferati & Co). Dopo di che, il peggio non ha più avuto fine …

La difficoltà di fare il salto dalla difesa economica alla lotta politica nasce dal fatto che da più di trent’anni i proletari devono affrontare un attacco permanente contro le loro condizioni di vita e di lavoro, un attacco che li costringe a disperate lotte di retroguardia, in cui anche minimi organismi di difesa economica (il sindacalismo di base) spesso finiscono per essere l’unica ancora di salvezza, il meno peggio. Ma non è proprio il caso di far di necessità virtù. Visto che la posta in gioco è una catastrofe, che solo gli apologeti del capitale (o gli imbecilli) possono negare.

Contro la crisi globale, lotta globale

Nella seconda metà del Novecento, il modo di produzione capitalista è giunto alla sua fase matura, connotando l’intero pianeta. Anche i Paesi che hanno raggiunto per ultimi la loro indipendenza politica sono strettamente legati alla tendenza economica generale. Di conseguenza, anche il movimento operaio di questi Paesi non può limitarsi a occasionali rivendicazioni economiche, ma si trova immediatamente a fare i conti con la cosiddetta «globalizzazione», ovvero con il capitalismo mondiale, e con tutti gli sconquassi che ne derivano. Come mostra l’attuale crisi globale del capitalismo.

In questa fase, qualunque organismo proletario conseguente, in qualunque Paese del mondo, anche partendo da una lotta «economica» limitata, finisce per farsi carico, anche se non lo vuole, di una serie di questioni politiche, o meglio di tutte le questioni politiche. Per esempio, la difesa della salute dei lavoratori non può fermarsi entro i cancelli della fabbrica, poiché il problema investe un ambiente molto più vasto, che oggi comprende tutto l’am-biente in cui noi viviamo... I disastri sono sotto i nostri occhi: dall’Ilva di Taranto alle polveri sottili di Milano … e chi più ne ha più ne metta.

Oggi, con la crisi globale del capitale, questa constatazione assume un significato ancora più profondo e incalzante. La condizione operaia ha assunto una caratteristica flessibile (liquida): ieri lavoravi in fabbrica, oggi sei disoccupato, domani sbarcherai il lunario con lavori occasionali (precari)… E la precarietà lavorativa viene disciplinata dalla legge (il Jobs Act, la Loi Travail …), diventa la norma.

E se il lavoro diventa precario, anche le condizioni di vita complessive diventano precarie … Per cui la lotta operaia non può fermarsi entro la fabbrica, deve investire la condizione proletaria complessiva, oltre a salario & orario, vitto & alloggio, per capirci, più sanità e scuola, difesa dell’ambiente … senza accontentarci delle briciole per sopravvivere. Vogliamo il Pane & le Rose! Dicevano gli wobblies. E a maggior ragione, dobbiamo dirlo oggi, di fronte all’inesorabile abbruttimento delle nostre condizioni di esistenza.

E soprattutto dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani. Così come in alcuni luoghi di lavoro, non molti in verità ma significativi (in primis la logistica), stanno sorgendo quasi spontaneamente iniziative di autorganizzazione e di aggregazione politica, lo stesso deve avvenire nei luoghi dove viviamo. Ma non basta.

Qualunque aggregazione proletaria che esce dalla logica istituzionale si trova prima o poi a fare i conti con lo Stato, con le buone e con le cattive. E allora, per non finire mazziati e cornuti, ogni lotta deve sapersi aprire alle differenti esigenze presenti nella nostra società. Sulle piccole come sulle grandi cose, ogni lotta deve diventare un’occasione di aggregazione, di confronto e di unità con le differenti lotte che la crisi del capitale sta suscitando. Giorno per giorno e su ogni aspetto che riguarda la nostra vita quotidiana.

Oggi, in Italia, una ragione fondamentale di aggregazione è la solidarietà attiva e operante verso i profughi. Questi profughi sono parte di un immenso esercito industriale di riserva, il cui flusso diventerà una presenza costante e crescente in Italia come negli altri Paesi «ricchi & poveri» d’Europa. Se si manca a questa appuntamento, abbiamo chiuso. Almeno in Italia.

Dino Erba, Milano, 19 giugno 2016


[1] Oskar Anweiler, Storia dei Soviet. I consigli di fabbrica in Urss 1905-1921, Laterza, Bari, 1968. Maurice Brinton [del gruppo «Solidarity» di Londra], 17-21 i bolscevichi e il controllo operaio. Lo stato e la controrivoluzione, Jaca Book, Milano, 1976.
[2] Philippe Bourrinet, Alle origini del comunismo dei consigli. Storia della sinistra marxista olandese, Graphos, Genova, 1995.
[3] Agustín Guillamón, I Comitati di Difesa della Cnt a Barcellona (1933-1938). Dai Quadri di difesa ai Comitati rivoluzionari di quartiere le Pattuglie di Controllo e le Milizie Popolari, In Appendice: Gilles Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2013.
[4] Per la cronaca, nell’autunno 2015, l’attuale presidente della Uaw, Dennis Williams, strinse con la Fca di Sergio Marchionne un accordo talmente fetente riguardo la Chrysler che ha provocato una forte e decisa reazione degli operai. Questo significa che se manca un prospettiva rivoluzionaria, anche il sindacato più combattivo viene recuperato dal padrone. Vedi: http://www.blitzquotidiano.it/economia /fca-operai-accordo-marchionne-uaw-contratto-2287669/.
[5] Alla vicenda è stato dedicato il film Fist, con Sylvester Stallone (1978). Il clima in cui nei sindacati Usa prese piede il racket è ben descritto in: Louis Adamic, Dynamite – La storia della violenza di classe in America, Collettivo Libri Rossi, Milano, 1977 [Nuova edizione Bepress, Lecce, 2010].



In e-mail il 2 Giugno, pubblicato il 24 ottobre 20156 dc:
Donne, Islam e
paternalismo occidentale

Diffondo volentieri il Documento dell’Organizzazione per la Liberazione delle donne iraniane. Il Documento propone una stimolante messa a punto su una questione, il velo (hijab), che spesso e volentieri molti presunti rivoluzionari «occidentali» travisano in nome di un malinteso rispetto per le tradizioni «altrui». Atteggiamento che, in realtà, svela la coda di paglia paternalistica di questi presunti rivoluzionari «occidentali».

Da parte mia, nel richiamo alla Rivoluzione francese del 1789, riscontro tracce di ideologie eurocentriste che, invece, ritengo superate in Donne, etica e rivoluzione. Intervista alle compagne del Rojava [http://www.infoaut.org/index.php/blog/prima-pagina/item/16997-donne-etica-e-rivoluzione-intervista-alle-compagne-del-rojava]. Un confronto tra le due elaborazioni sarebbe quanto mai utile.

Il Documento dell’Organizzazione per la Liberazione delle donne iraniane è stato tradotto e pubblicato da «Alternativa di Classe» [a. IV, n. 40, 19 aprile 2016] che ringrazio per avermelo fornito.

Riguardo alla compagna Azar Majedi e al Partito Comunista-operaio d’Iran (hekmatista) vedi: http://96.0.67.75/0000_m_e/0m_e_2006/2608/AzarMajedibreifeBiography[1].pdf.

Iran: il ruolo e la posizione del movimento di liberazione delle donne

Pubblichiamo, a fini documentali, la nostra traduzione di un recente Documento dell’Organizzazione per la Liberazione delle donne iraniane, una organizzazione classista, che lavora dentro e fuori del Paese, e la cui Presidente è la compagna Azar Majedi, che è anche membro del Comitato Centrale del Partito Comunista-operaio d’Iran (hekmatista) [«Alternativa di Classe», a. IV, n. 40, 19 aprile 2016].

Il movimento di liberazione delle donne è uno dei più importanti movimenti sociali in Iran. È, per sua natura, contro la Repubblica islamica, e, da qui, direttamente contro il regime islamico.

Il rafforzamento del regime islamico nella società si è verificato contemporaneamente al movimento di protesta di massa delle donne. La resistenza e le proteste delle donne, individualmente o collettivamente, offensive o difensive, sono ancora in corso dagli ultimi tre decenni. Questo movimento né vuole, né può compromettersi con il regime o con la sua ideologia misogina. Trenta anni di repressione, di violazione dei diritti, l’apartheid di genere, il velo islamico, la resistenza costante e la tensione tra il movimento di liberazione delle donne ed il regime islamico, hanno dato una posizione speciale a questo movimento nella società in Iran. La lotta per la liberazione delle donne è uno dei più importanti baluardi della lotta contro il regime islamico. Il movimento di liberazione delle donne non è affatto compatibile con il regime islamico.

La questione femminile è una delle più importanti questioni sociali nella società iraniana e la questione della parità tra uomini e donne è una potente tendenza sociale. I movimenti sociali anti-regime sono molto attivi nella società. Il movimento di liberazione delle donne, di per sé, è uno dei movimenti sociali più attivi e si adopera per la completa parità tra uomini e donne nella società. Il movimento di liberazione delle donne è strettamente legato ad altri due movimenti, quello per l’emancipazione culturale dei giovani ed il movimento laico contro il governo islamico. Il primo è un movimento moderno, “anti-orientale” ed anti-islamico, nato dalla profonda contraddizione tra le giovani generazioni ed il regime islamico. Si tratta di un movimento forte, attivo nella guerra con il regime islamico. Il movimento laicista ed anti-religione è un altro movimento socio-culturale e politico illuminato importante in Iran. Questi tre movimenti sono interconnessi nelle loro richieste per bandire il velo islamico, abolire l’apartheid di genere, separare la religione dallo Stato, per la libertà sessuale e l’emar-ginazione totale della religione nella società.

Queste condizioni danno una dimensione diversa alla lotta del popolo per rovesciare il regime. La partecipazione attiva e di massa delle donne nelle proteste popolari contro il regime islamico dà al movimento un forte carattere (di) anti-sciovinismo maschilista e “femminile”. Questa dimensione può essere confrontata con la sollevazione rivoluzionaria contro lo Scià. Nel 1979, in primo luogo, il movimento per i diritti delle donne stava iniziando a prendere forma; in secondo luogo, non solo la cultura orientale reazionaria, misogina ed anti-moderna, tendenza che glorificava il passato ed era sotto l’influenza dell’Islam, era dominante nella maggior parte del patrimonio artistico, intellettuale ed anti-americano di sinistra, che era l’iniziale terreno di coltura per i giovani e gli studenti che protestavano, aveva fermato l’emergere delle libertà delle donne, ma aveva anche “ceduto” le donne al Movimento islamico.

In queste condizioni, nonostante la partecipazione attiva e di massa delle donne nel movimento per rovesciare lo Scià, molte donne indossavano volontariamente Hijab, come simbolo di unità: è stata una azione reazionaria, definita come un sacrificio “rivoluzionario”. Era praticamente in tali condizioni che i governi occidentali, attraverso la manipolazione politica, sono riusciti ad imporre Khomeini ed il movimento islamico sul movimento rivoluzionario dei popoli.

Ora la situazione è completamente diversa.

Il movimento di liberazione delle donne è stato attivo negli ultimi dieci anni nella società e sta diventando sempre più ampio e popolare ogni giorno (che passa). L’influenza e l’espansione del movimento di liberazione delle donne sono il risultato della contraddizione tra la posizione delle donne e la loro posizione giuridica ed ufficiale. Quindi, la questione femminile è diventata un grande enigma irrisolvibile per il regime islamico e l’opposizione nazionale-islamica. Gli islamisti, capeggiati da Khomeini, dovettero considerare le donne come una grande forza di opposizione sin dal primo giorno. Era chiaro per il regime islamico che un elemento fondamentale nella soppressione della rivolta del 1979 era (stato) quello di schiacciare il movimento delle donne. I due termini dell’equazione sono regime islamico contro la liberazione delle donne. L’uguaglianza di genere è in cima alla lista della lotta dei popoli contro il regime islamico.

Il primo confronto tra il governo islamico e le donne iniziò dalla dichiarazione di velo obbligatorio (Hijab) di Khomeini. La prima protesta di massa e radicale contro il regime islamico da parte delle donne è stata la manifestazione del 8 Marzo 1979 contro il Hijab, ed è durata per una settimana, che ha costretto il regime e Khomeini a fare marcia indietro. Non solo il hijab islamico è un simbolo di schiavitù e di mancanza di diritti delle donne, ma è anche uno strumento importante nella sottomissione delle donne. Hijab è stato anche trasformato nella bandiera dell’Islam politico reazionario e misogino. L’apartheid di genere è un sistema estrema-mente arretrato e discriminatorio. L’abolizione dell’apartheid di genere deve essere la domanda principale di qualsiasi movimento per la dignità umana. Il mondo civile e che cerca la libertà una volta sconfisse prima l’apartheid razziale. È tempo di abbattere anche l’apartheid di genere. Al movimento di liberazione delle donne ed al popolo dell’Iran, che si battono per la libertà, spetta di raggiungere questo obiettivo. Il movimento di liberazione delle donne ha iniziato la sua lotta, a partire dal primo giorno in cui il regime islamico ha preso il potere, per combattere contro il regime islamico in entrambi i settori,  politico ed ideologico.

L’istituzione di un sistema secolare, che significa l’abolizione di tutte le leggi religiose, la separazione della religione dallo Stato, l’istruzione e l’identità individuale, è il presupposto politico per realizzare una società di liberi ed uguali. La lotta contro la superstizione religiosa e le tradizioni religiose, l’emarginazione della religione rappresentano l’altro importante compito a portata di mano per il movimento per l’uguaglianza e la liberazione. La popolarità della domanda di laicità nella società è talmente alta che ha anche spinto i riformisti di regime a difenderla. Questa corrente reazionaria, sotto la pressione del popolo, dei movimenti culturali di liberazione delle donne, di emancipazione ed anti-religione, ha dovuto fingere di accettare una sorta di laicismo in modo da evitare che l’Islam fosse spazzato via totalmente dalla società.

Sotto l’attuale situazione dittatoriale, le organizzazioni radicali delle donne non hanno la possibilità di lavorare apertamente in Iran. Solo le donne nazionaliste-islamiste hanno una relativa possibilità di operare. Così, ciò dà maggiori possibilità ai media internazionali di dipingerle come quelle che si occupano del movimento per i diritti delle donne. Dobbiamo cambiare questa situazione. Qualsiasi cambiamento di equilibrio delle forze che renda possibile operare per le organizzazioni delle donne radicali, cambierà la posizione del movimento di liberazione delle donne.

Dobbiamo fare in modo di avere la guida dei movimenti di liberazione, per l’uguaglianza e le richieste massime per il movimento delle donne. Questa è una delle condizioni necessarie per il successo del movimento di liberazione delle donne e del movimento dei popoli per il rovesciamento del regime islamico. Dobbiamo adoperarci per rendere popolare l’organizzazione per la liberazione della donna all’interno delle masse e reclutare gli attivisti radicali e le persone interessate dal movimento delle donne radicali nella nostra organizzazione.

Il conflitto tra la liberazione delle donne e l’Islam politico è una questione di tutta la regione (mediorientale-ndr). Il ruolo del movimento di liberazione delle donne, nella regione sotto l’influenza dell’Islam, in Medio Oriente e Nord Africa, è innegabile. Il potenziamento dell’Islam politico nella regione negli ultimi trenta anni, soprattutto nell’ultimo decennio, ha spinto indietro la situazione delle donne nella regione. Si sono massicciamente rafforzate le tradizioni islamiche. Nei Paesi in cui gli islamisti hanno preso il potere, il Hijab islamico è stato imposto alle donne. L’apartheid di genere sia è affermata in molti paesi della regione. Questi sviluppi hanno portato a proteste di massa contro gli stati dominanti nella regione nel corso degli ultimi due anni. Come risultato di sconvolgimenti politici e del rovesciamento di quattro capi di stato dei Paesi della regione, sono avanzati gli islamisti. Con l’intervento, la manipolazione politica, militare e finanziaria, fornita dai governi reazionari della regione, la Turchia, il mondo arabo, l’Arabia Saudita, il Qatar ed i governi occidentali, guidati da Stati Uniti d’America, il movimento islamista si è ulteriormente rafforzato nella regione. In particolare, il movimento rivoluzionario del popolo di due Paesi. Egitto e Tunisia, con la partecipazione attiva ed efficace del movimento per i diritti delle donne, sono cresciuti contro il movimento islamico. La storia della responsabilizzazione degli islamisti in Iran e le sue successive manifestazioni hanno svolto un ruolo importante nello sviluppo del movimento anti-islamico nella regione.

Il rovesciamento rivoluzionario del regime islamico in Iran e la vittoria del movimento per la libertà e l’uguaglianza non solo cambieranno il volto dell’Iran, ma avranno anche un impatto profondo sulla posizione del movimento per la libertà e l’uguaglianza nell’intera regione. Inoltre, la vittoria del movimento di liberazione delle donne in Iran può essere paragonabile storicamente con la Rivoluzione francese del 1789. La vittoria di questo movimento contro il regime islamico avrà lo stesso effetto su Islam e movimento islamico che la Grande Rivoluzione francese ha avuto sulla Chiesa e il cristianesimo.

Il movimento di liberazione delle donne è un movimento a sé stante per la libertà e l’uguaglianza. La vittoria del movimento di liberazione delle donne dipende dalla organizzazione per la libertà e l’uguaglianza.

L’abolizione della oppressione delle donne, l’istituzione della libertà completa ed incondizionata e la liberazione sono possibili solo in una società dove “regnino” libertà, uguaglianza e prosperità, condizioni realizzabili in una società socialista, dove non vi sono classi, né sfruttamento od oppressione di classe. L’organizzazione per la liberazione delle donne (OWL) invita tutte le donne attiviste, radicali e rivoluzionarie, ad unirsi a noi. Insieme, uniti possiamo lottare contro il regime islamico per la libertà e l’uguaglianza di uomini e donne.


In e-mail in aprile, pubblico ora 24 Ottobre 2016 dc:
Note a margine su accumulazione originaria
 e oppressione (sfruttamento) della donna

Dopo aver letto la bella intervista a Silvia Federici, Anatomia politica dell’oppressione (a cura di Anna Curcio, «Il Manifesto, 30 marzo 2016), ho avuto l’impressione che alcuni passaggi non siano ben espressi e possano dar luogo a fastidiosi fraintendimenti, in particolare in merito alla cosiddetta accumulazione originaria (o primitiva) di cui parla Marx (cap. 24 del Primo Libro del Capitale).

Motivo per cui, per quanto la questione sia complessa, cercherò di scolpire sinteticamente i passaggi fondamentali, augurandomi di chiarirne i concetti presenti nell’esposizione di Marx che, a volte, non sono compresi come meritano. Premetto che indico processi contraddittori e conflittuali che non sono assolutamente UNILINEARI e quindi non sono assolutizzabili.

– La cosiddetta accumulazione originaria di cui parla Marx avviene dal secolo XIV al secolo XVII e riguarda esclusivamente l’Europa occidentale, anche se le nefaste conseguenze sono state poi «esportate» in ogni angolo del mondo.

– L’accumulazione originaria è il momento culminante di un precedente e millenario processo che tende a separare gli umani dalla natura, facendo sì che il rapporto uomo-natura venga mediato dal denaro (espressione fenomenica del valore). Questo processo di separazione nasce nella Grecia classica (col denaro, la filosofia e la democrazia), riguarda l’area mediterranea e culmina nell’Europa occidentale con l’accumulazione originaria.

– Durante l’accumulazione originaria avviene la proletarizzazione di gran parte della popolazione dell’Europa occidentale, in massima parte dedita all’agricoltura. Questa popolazione viene progressivamente privata dei mezzi della propria attività di sostentamento (produzione e riproduzione della vita), in primis la terra che diventa proprietà privata (ovvero rubata). Gli espropriati, per vivere, sono costretti a vendere la propria forza lavoro agli espropriatori, e diventano proletari, mera forza lavoro, gli altri diventano borghesi, più o meno gentiluomini. Durante questa fase permangono, seppur socialmente marginali, aree di «economia naturale» (autosufficiente, self-sustaining dice Marx), in cui le donne occupano una posizione secondo me ancora rilevante.

Penso che sia questa la fase cui fa riferimento Silvia Federici, quando dice che «il salario diventa lo strumento che costruisce e garantisce la subordinazione delle donne ciò che ora conferisce al maschio il potere di comandare il lavoro della donna». Da parte mia ritengo però che, in questa fase, la cui durata è di almeno quattro secoli (e sempre nell’Europa occidentale), il rapporto salariale sia soggetto a limitazioni, di conseguenza i rapporti uomo/donna, per quanto (molto) conflittuali, non vedono ancora la supremazia maschile. Supremazia che si afferma quando l’«economia naturale» a base famigliare viene definitivamente dissolta, come in Inghilterra nel corso del XVIII secolo, durante la rivoluzione industriale, e la donna conosce le «gioie» del lavoro salariato (alienato).

A questo proposito, nell’intervista, Silvia Federici sembra trascurare le vibrate descrizioni che Marx fa della degradazione in cui donne e fanciulli vengono gettati (Il Capitale, Libro I, Sezione Terza, Capitolo 8). Per inciso, questa condizione rivive tragicamente nelle illustrazioni di William Hogarth. Di converso, l’intervista non mette nella necessaria evidenza la tesi caratteristica di Silvia Federici in merito al fatto che, nella moderna società capitalistica, la donna figliando (ovvero generando proletari) produce GRATIS la forza lavoro per la valorizzazione del capitale. Aspetto che per me merita una profonda riflessione, per esempio: la maternità, così come oggi viene intesa, è una condizione NATURALE della donna o è il frutto di un rapporto sociale? E se è frutto di un rapporto sociale, fino a che punto questo rapporto ha «conquistato» (sottomesso) la condizione femminile?

Da parte mia ritengo che l’attuale condizione della donna, secondo la visione di Silvia Federici, riguarda la fase di pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico, fase che Marx definisce di sussunzione reale del lavoro al capitale, in cui TUTTI gli aspetti della vita sociale sono (tendenzialmente) sottomessi al processo di valorizzazione del capitale. Che il capitale ci riesca o meno è un’altra questione. Ed appunto a questo aspetto, per me cruciale, ho dedicato il libro che spero di pubblicare quanto prima: Dino Erba (e altri), Il sole non sorge più a Ovest. Significati e forme delle rivoluzioni al tempo della Grande Crisi. Riflettendo con Marx: razze, etnie, nazionalità, genere e sfruttamento operaio.

Dino Erba, Milano, 2 aprile 2016.


Pubblico ora, 19 Ottobre 2016 dc, un'articolo inviatomi il 14 Luglio scorso:
Pauperismo in salsa vaticana
Ho appreso molte più informazioni utili ed interessanti leggendo il romanzo di Dan Brown, "Angeli e demoni", anziché i numerosi, autorevoli saggi sulla materia.

Le cronache vaticane testimoniano che le dimissioni a sorpresa di Ratzinger, che hanno aperto la strada a Bergoglio, sono riconducibili alle lotte intestine tra le opposte cordate (in primis l’Opus Dei) che dilaniano la curia pontificia di Roma anzitutto sulla questione dello IOR, la famigerata banca vaticana.

In apparenza questo istituto sembra una piccola filiale di provincia, eppure il flusso di capitali che circolano tramite essa è ingente: si tratta di movimenti finanziari dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari. Tramite questo istituto si compiono operazioni assai spericolate nel ramo dell'industra bellica, in quello del riciclaggio dei fondi neri provenienti da ogni angolo della Terra, nel traffico dei farmaci e così via.

Il vantaggio fornito da questa minuscola banca consiste nel fatto che finora si è dimostrata assolutamente inaccessibile e segreta, non sottostando a nessun organo di controllo internazionale, non essendo quotata in borsa ed avendo partnership solo con alcune banche svizzere ed alcuni paradisi fiscali.

Papa Ratzinger voleva porre fine a tutto ciò nominando una commissione anti-riciclaggio con a capo il cardinale Nicora e Gotti Tedeschi a capo della banca. Fatto sta che sia Gotti Tedeschi che il cardinale ottennero una normativa anti-riciclaggio (mai applicata) e si misero in contatto con analoghi istituti anti-riciclaggio italiani ed esteri. Inoltre, essi dimostrarono una chiara disponibilità a collaborare con la magistratura. Furono eliminati (politicamente) dal cardinale Bertone e da quelli che stavano dietro, prelati e speculatori finanziari.

Per l'ex papa, ricattato tramite dei documenti trafugati dal suo maggiordomo, sfidare tutto ciò poteva significare una dose di veleno nella tazza di tè. Un pericolo che non è ancora fugato del tutto, ma che oggi corre seriamente Bergoglio.

Non a caso, il ruolo del nuovo pontificato si è subito manifestato ed è probabilmente quello di "liquidare" il capitalismo nella versione ultraliberista, per promuovere una sorta di "terza via": un'alternativa incarnata da Santa Romana Chiesa.

Come il pontificato di Wojtyla (dietro cui agiva, nell’ombra, in veste di consigliere, il cardinale Ratzinger) ebbe il mandato di liquidare il socialismo reale dell’Europa orientale. Si intravedono numerosi indizi in tal senso. Nell'attuale fase, percorsa da una crisi non soltanto economica, la Chiesa di Roma tende a riavvicinarsi ai popoli diseredati. Non dimentichiamo che sul versante del "camaleontismo" la Chiesa Cattolica è una vera specialista, per cui non conviene sminuire le sue ambizioni, che non investono il breve o medio termine, ma si proiettano nel più lungo periodo, per cui non vanno affatto sottovalutate.

Nell'attuale frangente, segnato da una crisi irreversibile che investe il capitalismo globale, la Chiesa, con le sue ramificazioni planetarie, ha intercettato le sofferenze e gli umori dei popoli ed avverte il bisogno impellente, per sopravvivere alla crisi in atto (e ad un ipotetico crollo finale del capitalismo), di rivelarsi con uno spirito più "evangelico" e manifestarsi come una Chiesa pauperistica e francescana.

Non a caso, Bergoglio ha scelto il nome di Francesco. È questa la strategia camaleontica che la Chiesa sente di dover adottare in questa fase, come ha già fatto nel corso degli ultimi duemila anni di storia.

Altrimenti essa si sarebbe già estinta da tempo. Si sa che lo Stato della chiesa non appare troppo in salute, poiché risente della crisi in cui versa l'intera società capitalistica. Nondimeno, ha conosciuto ben altre tempeste. In questo momento storico sa bene che deve aderire, almeno sul terreno verbale, alle istanze ed alle rivendicazioni che provengono dai popoli affamati della Terra. Deve (fingere di) schierarsi con i poveri, predicando bene. E si sa che sul fronte delle prediche, i preti "giocano in casa": la storia insegna che sono dei veri maestri e dei campioni impareggiabili. Nel contempo, essi non sono così miopi come i capitalisti. L'attuale corso politico di Santa Romana Chiesa sembra essere orientato verso una sorta di pauperismo in salsa "vaticana". Più per convenienza, la Chiesa si è riavvicinata alle folle umili e diseredate del pianeta. Non è un caso che sopravviva da ben duemila anni, mentre il capitalismo conta appena pochi secoli di storia ed è immerso in una crisi di sistema da almeno cent'anni.

Lucio Garofalo


Pubblico solo ora, 19 Ottobre 2016 dc, con assurdo ritardo un comunicato inviatomi il 28 Aprile: è un volantino che è stato poi distribuito alle manifestazioni del 1° Maggio:
Rivoluzione, classe e partito

Il capitalismo è sfruttamento. Da sempre e ovunque. La Grande Crisi ha portato alla luce ancora una volta l'irrazionalità di questo sistema. Montagne di miliardi a sostegno delle banche, per “salvare la (loro) economia”. Tagli, restrizioni, sacrifici sempre più insopportabili per finanziare questo soccorso pubblico al capitalismo in crisi. Si comprimono salari, si allunga l'orario di lavoro, si tagliano i diritti sindacali individuali e collettivi, per competere sui mercati, in una corsa infinita che “arruola” i salariati di ogni paese in una guerra permanente contro altri salariati. Mentre le stesse borghesie che predicano rigore e sacrifici ai “propri” operai nel nome del superiore “interesse nazionale”, imboscano il frutto della propria rapina nei paradisi fiscali (Panama papers).

Parallelamente la crisi alimenta nuovi venti di guerra. USA e Cina si contendono sempre più i mercati del mondo. Riprende la corsa agli armamenti, a partire dal Pacifico. Mentre la contesa per le grandi rotte del petrolio, tra potenze mondiali o regionali, concorre a trasformare il Medio Oriente in una carneficina senza fine. Che somma guerra imperialista e terrorismo reazionario fondamentalista (alimentato dall'imperialismo stesso). Che sospinge la fuga di enormi masse umane, prima colpite dalla guerra, poi respinte dal filo spinato della civile e democratica Europa. Un Europa partecipe di quella guerra, in complicità col boia Erdogan, mentre Italia e Francia si contendono Libia e Nord Africa, come un secolo fa.

Altro che “progresso”, come avevano promesso dopo il crollo del muro di Berlino! Ovunque regressione e barbarie.

IL FALLIMENTO DEL RIFORMISMO

Qui si misura tutta la miseria del riformismo. Il sogno di un capitalismo onesto e dal volto umano, di una Europa sociale , democratica e di pace, si è rivelato un’utopia, una truffa.

L'epoca breve delle “riforme sociali” fu consentita dal boom del dopoguerra (grazie ai suoi 50 milioni di morti) e all'esistenza dell'URSS, quale contrappeso al capitalismo. Prima la fine del boom, poi il crollo dell'URSS (per responsabilità dello stalinismo), infine la Grande Crisi, hanno chiuso quella parentesi. Oggi chiunque governi un capitalismo in crisi, dispensa sacrifici e miseria. Sono state proprie le socialdemocrazie, negli ultimi 30 anni, ad aprire la strada alle controriforme sociali: da Blair a Schroeder, da Prodi a Hollande... Altro che “il meno peggio”! Ed anche la nuova Sinistra Europea finisce sempre col gestire, una volta al governo, le stesse politiche antioperaie. Tsipras gestisce la stessa politica della Troika che aveva “denunciato” dall'opposizione. La Rifondazione di Bertinotti e Ferrero votò al governo (Prodi) guerra e sacrifici, contro cui era nata, sino al suicidio.

La capitolazione riformista in epoca di crisi spiana la strada al populismo reazionario, che monta in larga parte d'Europa, nel segno della guerra ai migranti e della rottura dei vecchi
“patti costituzionali”. È forse un caso se in Italia il suicidio della sinistra (e sindacale) ha accompagnato l'avanzata del renzismo, del salvinismo, del grillismo, in una autentica gara per meglio colpire i diritti di lavoratori e sfruttati ?

LA VERA ALTERNATIVA È TRA SOCIALISMO E REAZIONE

La vera alternativa non è tra destra e sinistra, ma tra classe e borghesia. Tra rivoluzione e reazione. Questo è il grande bivio del nostro tempo. Solo il rovesciamento del capitalismo può liberare un orizzonte di progresso. Attraverso un'organizzazione socialista della società che metta nelle mani di chi lavora le leve fondamentali dell'economia, a partire dalla grande industria e dalle banche. Riducendo l'orario di lavoro per dare a tutti un lavoro. Riconvertendo le produzioni nocive, a difesa della salute e dell'ambiente. Ricostruendo e allargando le protezioni sociali. Finalizzando l'intera economia ai bisogni di tutti, non al profitto di pochi. Solo un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e la loro forza, può realizzare queste misure. L'alternativa a questa prospettiva rivoluzionaria internazionale è l'imbarbarimento del mondo. Non una minaccia, ma un processo già in atto.

LA CLASSE OPERAIA È UNA POTENZA MONDIALE

La classe ha subito in larga parte del pianeta un arretramento pesante in questi decenni. Il sistematico tradimento dei propri partiti (e burocrazie sindacali) ha frantumato le sue lotte di resistenza, ha favorito disgregazione e sconfitte, ha trascinato un arretramento diffuso della coscienza di ampi settori di massa. A beneficio del padronato e del populismo reazionario.

Eppure resta l'unica forza che può costruire un ordine nuovo, ponendosi alla testa di tutte le domande di liberazione. I salariati nel mondo superano ormai i 2 miliardi. Le resistenze sociali continuano a percorrere il mondo. A partire dalle lotte dell'enorme proletariato cinese, che ha strappato in 10 anni la triplicazione del salario. O da quelle per il salario minimo negli USA. Nella stessa Europa la grande mobilitazione francese contro il Job Act d’oltralpe, nel segno dell'unità tra salariati e giovani, ha spezzato la morsa dello stato d'assedio e delle leggi eccezionali (votate vergognosamente dal Fronte de Gauche), riproponendo al centro dello scontro sfruttati e sfruttatori. La ribellione è possibile ed è l'unica via.

COSTRUIRE IL PARTITO, IN OGNI PAESE E INTERNAZIONALMENTE

Tutta l'esperienza di classe, passata e recente, ci dice una cosa: non basta il movimento di lotta, è essenziale la coscienza politica. La direzione del movimento. Le lotte più grandi possono persino rovesciare un regime oppressivo, come è accaduto in Tunisia o in Egitto. Ma se non si sviluppa la coscienza politica, congiungendosi a un progetto rivoluzionario, anche la lotta più grande è condannata prima o poi alla sconfitta. Costruire controcorrente tra gli sfruttati una coscienza di classe anticapitalista e rivoluzionaria, è il compito insostituibile di un partito comunista, in ogni Paese e nel mondo intero.

Organizzare i lavoratori più coscienti attorno a un programma di rivoluzione; unire nella stessa organizzazione tutti coloro che condividono questo programma; radicare questa organizzazione tra i lavoratori e in ogni movimento di lotta; ricondurre ogni esperienza di lotta, nella propaganda e agitazione di ogni giorno, alla prospettiva della rivoluzione sociale e del potere dei lavoratori: questo è il lavoro di costruzione del Partito Comunista, in ogni Paese e su scala mondiale. Questo è l'impegno del Partito Comunista dei Lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori

Segnalotomi in e-mail, dal sito del Partito di Alternativa Comunista 31 Agosto 2016 dc:

Polemica
Difesa della militanza rivoluzionaria

 
 
 
 

"Bisogna preparare della gente che non dedichi alla rivoluzione solo le serate libere, ma tutta la sua vita (...)."
V.I. Lenin, "I compiti urgenti del nostro movimento" (Iskra n. 1, dicembre 1900).
 

di Francesco Ricci
 

Pubblichiamo la versione in italiano di un articolo pubblicato la settimana scorsa sul sito del Pstu brasiliano e nei giorni seguenti sui siti in varie lingue della Lit-Quarta Internazionale.
L'articolo è stato "condiviso" su facebook da migliaia di persone e sta suscitando molte polemiche sui social network.
 

Sta facendo molto discutere un articolo di Alvaro Bianchi, dal titolo "Crítica ao militantismo", pubblicato sul sito brasiliano blogjunho.com.br.
Su Facebook sono decine i post di critica ma sono anche molti coloro che apprezzano l'articolo, elogiandolo e indicandolo come un punto di riferimento per quanto riguarda il tema affrontato: la questione della militanza.
 
Le pene della militanza... e le gioie dei post-attivisti

Nell'articolo Alvaro Bianchi inizia costruendo un obiettivo per la sua polemica: quello che chiama il "militantismo", cioè una forma caricaturale della militanza rivoluzionaria. Parla di "feticismo dell'azione, la convinzione che l'attività permanente e diretta condurrà inevitabilmente a una vittoria decisiva.

Dal volantinaggio al picchetto, dal picchetto all'assemblea, dall'assemblea alla riunione, per poi ricominciare il ciclo."
Parla di militanti che si emozionano solo "con le vite esemplari dedicate alla causa, con il sacrificio".
Di sciocchi, ostinati e maniacali, animati da una fede cieca; di "capi che pensano e subalterni che eseguono".

La caricatura e il disprezzo che Bianchi rivela per la militanza vanno incontro a un senso comune diffuso.
La degenerazione stalinista e quella della socialdemocrazia, la corruzione dilagante dei partiti riformisti inseriti negli apparati dello Stato borghese hanno gettato un forte discredito sulla militanza e sui partiti in generale.

Un discredito di cui cercano di approfittarsi le formazioni populiste e reazionarie come il Movimento di Grillo in Italia, o le formazioni neoriformiste, come Podemos in Spagna, che hanno come base non la militanza ma gli elettori.
Tutto il neoriformismo vanta come propria caratteristica il suo essere "anti-partito" o post-partito; elogia il superamento delle "tradizioni terzinternazionaliste", includendo in questo termine tanto il Comintern rivoluzionario di Lenin e Trotsky come la sua negazione burocratica e controrivoluzionaria.

Già più di dieci anni fa, Impero, delirante manifesto della "biopolitica postmoderna", scritto da Toni Negri e Michael Hardt e a cui si ispirano (più o meno consapevolmente) tanti accademici, criticava il militante "triste ascetico agente della Terza Internazionale" che "agisce per disciplina" e proponeva una nuova militanza, diversa, che "resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto d'amore", ispirandosi invece che a Lenin a San Francesco perché il santo, a differenza del capo bolscevico, contrapponeva "la gioia di essere alla miseria del potere."
 
Il disprezzo per la militanza

Non avvenendo nel vuoto ma nel contesto politico che abbiamo sopra descritto, è chiaro quindi che la critica di Bianchi al "militantismo", nascondendosi dietro la critica a una caricatura di militanza che non esiste, è in realtà una critica indiretta a quei settori nel mondo che attuano una militanza rivoluzionaria.
Come, ad esempio, la Lit e le sue sezioni, e in Brasile il Pstu.

Con il tono di uno che dice cose controcorrente, Alvaro Bianchi non fa altro che riprendere tutti i luoghi comuni oggi in voga nel neoriformismo, negli ambienti accademici che civettano con il post-modernismo, nei siti web e nei blog animati da ex militanti che cercano di espiare i loro peccati di gioventù, nei gruppi politici che in qualche modo cercano di presentarsi come un "nuovo" modo di fare politica in contrapposizione appunto al "militantismo" (espressione usata, come abbiamo visto, per riferirsi alla militanza rivoluzionaria e di partito).

Alvaro Bianchi non dice nulla di nuovo né di controverso: gli va riconosciuto però il merito di essere riuscito in un articolo breve a condensare tutti i luoghi comuni preferiti dal neoriformismo e dal centrismo, che si possono riassumere in definitiva in una frase: la militanza vecchia maniera (o "militantismo") è una cosa sciocca, pesante, fatta di volantinaggi davanti alle fabbriche, di autofinanziamento che richiede sacrifici, basata su inutili "certezze" e triste; invece, le nuove forme di attivismo "orizzontalista" possono essere intelligenti e leggere, basate sull'elogio permanente del "dubbio", sullo scetticismo, sulla "disobbedienza" e il rifiuto della disciplina e soprattutto possono garantire l'allegria.

È comprensibile che molti militanti siano rimasti infastiditi per l'articolo di Bianchi: nessuno obbliga Bianchi o altri a fare militanza, ma non si capisce con che diritto debba offendere chi la fa e intere generazioni che hanno sacrificato tempo, energie e anche la propria vita per quello che Bianchi definisce con disprezzo "militantismo".
 
L'ottimismo della volontà

Vale la pena di soffermarsi sulla citazione che Bianchi, gramsciano e gramsciologo, pone all'inizio del suo articolo: "il pessimismo della ragione, l'ottimismo della volontà" parafrasandola così: "Senza il controllo continuo del pessimismo dell'intelletto l'ottimismo della volontà facilmente si converte in puro militantismo."
La frase che Bianchi sta parafrasando è da molti attribuita a Gramsci, che a sua volta la attribuiva a Romain Rolland.

Come è stato poi dimostrato da alcuni filologi, però, lo scrittore francese la riprendeva da Jacob Burckhardt, maestro e amico del filosofo nichilista Nietzsche.
In ogni caso, chiunque sia l'autore di questo motto, Gramsci lo usava in senso differente tanto da Romain Rolland come da Bianchi.
Bianchi pone l'accento sul "pessimismo" dell'intelligenza, che alimenta il suo scetticismo sulla possibilità di cambiare il mondo e quindi il suo sottile disprezzo per chi fa "militantismo" e si impegna "ciecamente" (e scioccamente) convinto che il mondo possa essere cambiato.

Invece Gramsci usava la frase in senso esattamente opposto: la razionalità dimostra come sia difficile cambiare il mondo, tuttavia la storia (come ci ha insegnato Marx) non è il prodotto di "forze cieche" ma è fatta dagli uomini (anche se in circostanze che non si sono scelti) che possono, con la "praxis rivoluzionaria", cambiarla.
È interessante notare che Gramsci usa questa frase per la prima volta nel 1920 (poi la riprenderà varie volte: nei Quaderni, nelle Lettere) e in un articolo sull'Ordine Nuovo di quello stesso anno la utilizza proprio per elogiare la militanza e "gli sforzi e i sacrifici che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia."

Ci sono in Gramsci, a mio giudizio, molte deviazioni centriste che spiegano perché gli intellettuali riformisti e centristi cercano spesso in Gramsci un riferimento.
Non è però il tema di questo articolo e ho cercato di dimostrarlo in forma più argomentata in un altro articolo (1).
Ma qualunque sia il giudizio su Gramsci, è certo che egli, che come Trotsky aveva appreso il materialismo studiando i testi di Labriola, non aveva una concezione determinista in senso stretto del materialismo: comprendeva quella dialettica tra oggetto e soggetto, tra circostanze e azione rivoluzionaria dell'uomo che può cambiare il mondo.

È quella "praxis rivoluzionaria" che secondo Marx e Lenin si esprime nell'organizzazione, nel partito della classe operaia e dunque, per riprendere le parole di Gramsci, nella militanza "nelle file della classe operaia". Gramsci (come scrive in una lettera dal carcere del dicembre 1929 al fratello Carlo) vede in questo motto un "superamento di quegli stati d'animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo".
Per Gramsci l'impegno attivo, cioè la militanza organizzata in un partito rivoluzionario, possono cambiare il mondo, a differenza di quanto credono quegli intellettuali tradizionali, non "organici" alla classe operaia, per i quali esprimeva il suo più profondo disprezzo.

Dunque Gramsci usa la citazione ripresa da Bianchi ma lo fa per esaltare la militanza rivoluzionaria.
Se dunque Bianchi vuole attaccare la militanza (fingendo di attaccare il "militantismo") dovrebbe cercare altre figure di riferimento.
Con tutti i suoi limiti, con le sue deviazioni centriste, Gramsci fu per tutta la vita un militante di partito e morì nelle carceri fasciste esattamente per questo: se si fosse limitato a fare l'accademico e lo scettico, a scrivere su qualche rivista (o blog, come si direbbe oggi), Mussolini non lo avrebbe individuato come un pericoloso nemico da eliminare.
 
Un dizionario dei luoghi comuni

Sarebbe ingiusto, però, limitarsi a liquidare l'articolo di Bianchi come una banale celebrazione dello scetticismo piccolo-borghese.
È vero: l'articolo di Bianchi trasuda scetticismo e raccoglie con metodo contro la militanza un vero e proprio catalogo dei luoghi comuni piccolo-borghesi, tanto da risultare quasi un "dizionario dei luoghi comuni" come lo avrebbe concepito (forse con più senso dell'umorismo) il romanziere francese Gustave Flaubert.

Non sappiamo cosa volesse affermare Bianchi con questo articolo: la cosa più probabile è che si tratti di uno scritto estemporaneo, anche se fatto con lo scopo di "reinventare la sinistra e riorganizzarla", visto che questo è non solo il titolo di un altro recente articolo dell'autore ma anche lo scopo del blog su cui scrivono lui, Henrique Carneiro, Ruy Braga e altri intellettuali con le stesse posizioni.
In ogni caso, questo articolo contiene implicazioni importanti, politiche, che se anche sono state introdotte da Bianchi inconsapevolmente, sono state subito colte da alcuni suoi estimatori impegnati in politica.
Per indicare queste implicazioni dobbiamo però fare prima un passo indietro di cento anni.
 
Nuove teorie... di cento anni fa

Una caratteristica tipica del riformismo e del centrismo di ogni epoca è sempre stata quella di presentare periodicamente come "nuove" delle teorie che sono in realtà molto vecchie.
Questo si deve al fatto che, essendo il riformismo una pratica molto antica nel movimento operaio, è difficile per i suoi teorici odierni produrre qualcosa di nuovo, che non ripeta cose già dette e fatte.
Ma la pretesa di essere originali è dovuta spesso anche al fatto che questi teorici "post" (post-marxisti, post-bolscevichi, post-trotskisti, ecc.) vivono in genere nella ignoranza dei dibattiti e dell'esperienza pratica che il movimento operaio ha prodotto in quasi due secoli di vita.

L'ignoranza non è una virtù per dei rivoluzionari, ricordava Marx.
Ma, potremmo aggiungere noi, è di certo una virtù per riformisti e centristi: perché la teoria rivoluzionaria è un implacabile avversario della loro politica opportunista; dunque per loro è meglio coltivare l'ignoranza.
Questo accade spesso anche con gli accademici: in questo caso si aggiunge anche un altro elemento: l'arroganza di chi crede di parlare dalla sua cattedra a militanti ignoranti, a operai rozzi.
Per questo, quando scrivono i loro articoli e presentano le loro "nuove" teorie, questo tipo di intellettuali non si preoccupa nemmeno di approfondire, di studiare i dibattiti precedenti.

Ad esempio, nel caso che stiamo discutendo, le teorie di Bianchi contro il "militantismo" sono già state scritte e ripetute nella socialdemocrazia russa agli inizi del secolo XX.
Non solo: sono state il tema dello scontro e della rottura dell'ala rivoluzionaria (Lenin e i bolscevichi) con l'ala opportunista (Martov e i menscevichi).
Una buona parte del libro di Lenin intitolato Un passo avanti e due indietro (1904) è dedicato a polemizzare contro chi criticava i bolscevichi per una presunta "disciplina da caserma", per la "militanza cieca", perché i militanti sarebbero stati privati della loro libertà individuale e ridotti a "rotelle e rotelline" di un ingranaggio (2).

Alvaro Bianchi non inventa nulla di nuovo quando parla di militanti privati della "immaginazione creatrice", sciocchi per i quali "pensare è un'attività controrivoluzionaria", settari che desiderano "distruggere" gli oppositori, partiti che vorrebbero "sostituire l'avanguardia alle masse", eccetera.
E anche quando propone, in sostituzione di tutto questo, "nuove pratiche emancipatrici" sta camminando su sentieri che già altri hanno percorso molto prima di lui.
La "nuova" Iskra, cioè l'Iskra da cui era uscito Lenin e che, dal novembre 1903 all'ottobre 1905, era diventato l'organo dei menscevichi, pubblicò una gran quantità di articoli appunto per polemizzare contro la concezione "rigida" e "militante" che Lenin e i bolscevichi sostenevano.

Come si capirà in seguito, non si trattava di un dibattito su questioni puramente "organizzative" o sullo Statuto (anche se era nato a partire dalla definizione di militante nello Statuto): era un dibattito strategico perché la definizione del partito centralizzato di militanti, basato su una "disciplina di ferro" (cioè quel modello di partito e di militanza contro cui scrive Alvaro Bianchi) implicava la relazione tra il partito e la classe.
Nella concezione dei menscevichi doveva essere un partito di tutta la classe, che non distingueva attivisti e militanti (non "militantista", direbbe Bianchi).

Nella concezione dei bolscevichi, invece, doveva essere un partito d'avanguardia, al contempo separato e integrato nella classe.
A sua volta, la relazione tra il partito e la classe operaia definiva anche la relazione con la borghesia e il suo Stato.
Per questo il vero epilogo di questo dibattito sulla "militanza" sarà nel 1917, quando i menscevichi faranno parte di un governo borghese che sarà rovesciato dalla rivoluzione d'Ottobre.
Cioè il graffio dei menscevichi nel 1903 introdotto col dibattito sulla "militanza" si trasformerà nella cancrena del 1917.

Se Alvaro Bianchi - e i suoi estimatori - avranno il tempo e la pazienza di approfondire lo studio, scopriranno che tutti gli argomenti contro il "militantismo" sono già stati espressi più di cento anni fa.
Con l'unica differenza che forse il livello della polemica era un po' più elevato: anche perché a condurla si impegnarono teste come quella di Akselrod e di Plechanov, che seppero offrire all'opportunismo articoli, spero di non essere offensivo, più brillanti di quello di Alvaro Bianchi (3).
 
I filosofi hanno finora interpretato il mondo...

Come si capisce, la vera posta in gioco quando si discute della militanza è lo scopo per cui si costruisce (o ci si rifiuta di costruire) un autentico partito rivoluzionario: è la questione del potere della classe operaia e di quella rivoluzione che è necessaria per arrivare al potere e che è impossibile fare senza un partito di militanti, o con un surrogato di un partito di tipo bolscevico.

Non stiamo cioè discutendo di interpretazioni del mondo: se si trattasse solo di questo, come già segnalava il Marx delle Tesi su Feuerbach, sarebbero sufficienti i filosofi.
Ma si tratta di cambiare il mondo con una rivoluzione operaia e socialista: e questa è una questione che possono affrontare con serietà solo i militanti rivoluzionari, i tribuni del popolo, gli operai con le loro mani callose.
Agli accademici, agli scettici e a coloro che disprezzano la militanza disciplinata in un partito centralizzato, lasciamo volentieri la loro accademia, i loro blog, i loro luoghi comuni piccolo-borghesi e - se questo può dare loro allegria così come ci assicura il post-moderno Toni Negri - anche gli uccellini di San Francesco.
 

Note
(1) Un'analisi delle posizioni politiche di Gramsci e del suo centrismo in relazione al dibattito contro lo stalinismo si può leggere nel mio articolo "Gramsci traicionado", pubblicato sul sito della Lit www.litci.org.
(2) Per un approfondimento su questo tema mi permetto di rinviare a un mio articolo:
"A Democracia sem centralismo não tem nada a ver com o bolchevismo" pubblicato sul blog Convergencia e sul sito www.litci.org. In seguito pubblicato anche in italiano: http://www.alternativacomunista.it/content/view/2260/47/
(3) In italiano esiste una ottima raccolta dei principali testi della polemica iniziata sull'Iskra e proseguita sulla "nuova" Iskra. E' nel libro curato da Giorgio Migliardi: Lenin e i menscevichi. L'Iskra (1900-1905).



da Lucio Garofalo il 26 Agosto 2016 dc:
Barbarie e fanatismo
Tra le abitazioni private e gli edifici pubblici che sono crollati a causa del sisma dell'altra notte, rientra addirittura una scuola costruita nel 2012, per cui dovrebbe essere stata, almeno in teoria, una struttura antisismica. In ogni caso, alcuni giorni fa si è verificata in Giappone una scossa della stessa entità (magnitudo 6 scala Richter), ma non si sono registrati danni alle persone.

Da noi si verificano ancora disastri inauditi, come se vivessimo ancora prima del 1980 (quando ci fu il terremoto in Irpinia e Lucania), o addirittura nel 1600, in un'epoca oscurantista, in cui non era ancora sorta la sismologia come scienza, non si sapeva assolutamente nulla di fenomeni tellurici, delle loro cause, e non si disponeva dei mezzi scientifico-tecnologici e degli strumenti legislativi per predisporre un'efficace opera di prevenzione.

I soldi per rimettere in sicurezza il territorio della nostra penisola vengono dirottati altrove, destinati ad opere inutili e dispendiose come la TAV, a progetti faraonici come il ponte sullo stretto di Messina, a rimpinguare gli affari che interessano le mafie e le cricche politico-economiche che imperversano e dettano legge in Italia.

Quando si verifica l'ennesima tragedia collettiva come quella a cui stiamo assistendo in queste ore, si levano cori di farisei indignati, si versano fiumi di lacrime di coccodrillo, e si invoca un concetto che dovrebbe suonare del tutto anacronistico ed irrazionale alle nostre orecchie: la "fatalità". Ma di "fatale" non c'è nulla tranne la stupidità e l'ignoranza delle persone. I terremoti non si possono prevedere, ma si può evitare che arrechino disastri come quelli del Belice, del Friuli, dell'Irpinia, dell'Aquila e di oggi.

Non siamo attrezzati come il Giappone, ma ciò non è dovuto al "fato", bensì ad una carenza di volontà politica, a condizioni antropologico-culturali che pregiudicano in modo grave il progresso civile di questo "sventurato" Paese.

Lucio Garofalo

Con molto ritardo inserisco ora, 21 Maggio 2016 dc, un'intervista a Toni Negri rilasciata a Radio Popolare il 14 Dicembre 2015 dc e inotratami in e-mail il 30 di quello stesso mese:
Toni Negri

“Perché l’estrema destra vince”
di Marcello Lorrai

PARIGI - “Tutto questo ce lo si poteva aspettare, anche se evidentemente molto di più il successo di Marine Le Pen che l’esprimersi della rivolta ormai in fenomeni armati: che vengono sì dal Medio Oriente, ma che sono filtrati in maniera pesantissima dalle banlieues parigine e non solo parigine.

E cascano le braccia a vedere l’incapacità dei governi, socialdemocratici in particolare, di dare risposte ai problemi”.

Toni Negri, 82 anni, ci riceve nella sua casa di Parigi: l’occasione è l’uscita della sua autobiografia, Storia di un comunista (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie), ma siamo all’indomani delle amministrative francesi, e anche delle legislative in Venezuela, e a tre settimane dall’attacco jihadista nella capitale francese, e la conversazione (con ampie valutazioni sulla congiuntura latinoamericana che si possono ascoltare nella versione audio dell’intervista, in onda il 27 dicembre a “Sabato Libri”) comincia da questa attualità che preme.

Lei vive ormai stabilmente a Parigi: come vede gli ultimi avvenimenti francesi?

Sia di questa sorta di guerra sotterranea, che però è esplosa in maniera violentissima, sia dell’affermazione così impressionante del Fronte Nazionale, si può avanzare un’interpretazione abbastanza lineare e unitaria: l’incapacità dei governi sia socialisti sia della destra di affrontare il grave problema delle differenze e dei divari che caratterizzano questa società, e in particolare questa città.

Dal 2005, anno della rivolta delle banlieues, ad oggi non è stato fatto nulla, da un lato davanti all’impoverimento dovuto alla grande crisi del lavoro, e dall’altro all’incapacità del governo francese di staccarsi dalla sua vecchia vocazione imperiale, che invece continua a svilupparsi verso l’esterno, verso le vecchie colonie, ma si esercita anche all’interno sui cittadini francesi.

Per chi persegue una prospettiva europea il rischio è l’identificazione con le politiche di austerità dominanti in questi anni: ma per lei non se ne viene fuori con il “sovranismo” a cui propone di tornare anche una parte della sinistra…

Mi sembra che del sovranismo vediamo le conseguenze oggi, cioè il voto alla Le Pen.

Non è che se la sinistra si fosse presentata dicendo di volere la separazione della Francia dall’Europa avrebbe avuto maggiori soddisfazioni.

Il problema è la mostruosa crisi di rappresentanza: la sinistra non è più credibile non in quanto sovranista o non sovranista, ma perché schierandosi interamente su un terreno neoliberale ha inanellato una incredibile serie di insuccessi nella gestione delle questioni sociali.

E per fortuna che in Francia c’è ancora il vantaggio del funzionamento di un welfare molto più efficiente di quanto sia probabilmente in altri Paesi europei, sicuramente in Italia.

Una affermazione così importante del Fronte Nazionale comporta delle conseguenze enormi, che insistono però su un asse del governo francese che si è già tutto spostato verso destra: l’enfasi sullo stato di eccezione, che veramente fa un po’ paura, e questa specie di ira funesta, il bombardare per bombardare, la vendetta, posizioni che… fossero tragiche, ma sono quasi tragicomiche!

Il vero problema è appunto quello di una ripresa economica che sappia rispondere alla nuova natura del lavoro, del “proletariato” di oggi, e aprirsi alle moltitudini migranti, con cui, se non fossimo chiusi nel nostro egoismo, potremmo anche raggiungere una maggiore produttività.

È un problema che tocca l’intera Europa.

Escludo che la soluzione possa essere quella di un neosovranismo, perché l’unica possibilità per valere qualcosa nella determinazione della quotazione del denaro a livello mondiale è quella di essere una potenza: e l’Europa, che ci ha salvato dalle situazioni più terribili della crisi, è il solo spazio, la sola forza che oggi può permettere una sussistenza non periferica ai nostri Paesi.

Ma tra le due crisi, quella economica e monetaria e quella dei migranti, e la guerra, con l’orribile sovrapposizione della Nato alla Ue, questa Europa è finita.

Non vede plausibile che di fronte ai dati della crisi, e ai risultati ottenuti dalla destra estrema, ci possa essere un ripensamento rispetto alle politiche di austerità da parte dei partiti popolari e socialdemocratici ?

Abbiamo sperato tutti che in particolare un movimento del Sud Europa riuscisse a scuotere questi partiti, e a portarli verso una modificazione o comunque attenuazione delle regole ordoliberali.

La prima grande disillusione è venuta con la vicenda della Grecia, che ha tentato di aprire questa rottura.

È presto per dire cosa potranno fare le nuove forze che stanno montando in Spagna e in Portogallo, anche perché non sembra che ci sia un’apertura qualsiasi, sul livello europeo.

I timidissimi accenni di apertura dati dalla Merkel sull’immigrazione, sui “rifugiati” come ipocritamente li chiamano, hanno suscitato un sollevamento interno di tutta la destra a guida CSU ma anche di una destra fascistoide.

Non parliamo della tragica situazione all’Est, con governi veramente indecenti.

Il problema da porsi è che un po’ dappertutto le forze democratiche si risollevino e abbiano la capacità di fare un programma, e di cambiare volto, perché oggi è impossibile sviluppare un qualsiasi programma politico se non attraverso un nuovo personale politico e nuove istituzioni: se non si costruiscono degli episodi forti e continui di contropotere, a livello moltitudinario, è impossibile modificare le linee politiche dell’Europa.

C’è una patologizzazione delle rappresentanze politiche odierne che non può essere modificata dall’interno ma solo battuta da fuori.

Per arrivare alla riforma della Costituzione europea occorrono movimenti politici che sappiano imporre, sul terreno, una virata.

Bisogna muoversi sul terreno sociale, determinare grandi scadenze sociali, per modificare le politiche dei governi: ecco, abbiamo bisogno di un grande sindacato, di quelli di una volta, un sindacato che sia una potenza politica, sul livello europeo.

E ci sono forze che tentano di costruirlo, però siamo ancora all’abc, all’inizio di un processo del genere.

Ma vede con interesse anche dei tentativi che vengono fatti appunto in ambito sindacale?

Non so fino a che punto sia stato anche concepito, o ritenuto capace di svilupparsi in questo senso, ma il grande tentativo è quello della coalizione di Landini: credo tutt’ora che la sola possibilità che c’è in Italia di modificare la situazione è il collegamento tra i movimenti, alcune forze sociali e una punta di organizzazione sindacale o politica, che sappia sfondare.

Non un fronte, un fronte di sigle, ma una coalizione dinamica, aperta, di forze e di movimenti: è un passaggio assolutamente fondamentale.

Dobbiamo in qualche modo ripetere quella che è stata la nascita del socialismo, cioè le cooperative, le casse comuni, e questo su un piano che già abbia un’imprenditorialità, comunque una capacità imprenditoriale di produrre, di soggettivare.

Invece la coazione a ripetere dei fuoriusciti da questo o quel partito è completamente ridicola, e peggiora la situazione, perché ripresenta facce completamente usurate a un’opinione pubblica che se ha bisogno di qualche cosa è un elemento di radicalità, che rompa l’inerzia della situazione attuale.

A livello europeo ci sono innanzitutto Syriza e Podemos, ma anche i compagni portoghesi, che hanno cominciato, più che a costruire un’alternativa, a condizionare anche una fetta della vecchia istituzione, senza per questo identificarsi e diventare casta.

In Italia siamo di fronte ad un processo di revisione pesante della Costituzione, a cui c’è chi reagisce con la logica della difesa della Costituzione così com’è arrivata ai nostri giorni…

La Costituzione italiana è una costituzione di Yalta, in cui capitalismo e comunismo italiani arrivano ad un compromesso, che è stato onorato da una sola parte, dalla sinistra, perché l’altra, lasciando la Costituzione come insieme di parole, ha modificato realmente la struttura materiale della società italiana e quindi degli assetti di potere in Italia.

Da questo punto di vista la modificazione della Costituzione oggi non ha più neppure senso, la Costituzione è già completamente superata.

Quindi difendere la Costituzione passata può essere un atto di fede, un elemento di tranquillo compagnaggio, un modo per passare il tempo…

Non lo vede nemmeno come momento tattico?

Nemmeno.

Anche perché la Costituzione non funziona più.

È molto più importante fare lotte su altri aspetti, per esempio sull’Articolo 18, ma non in quanto Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che è stato dissolto dalle nuove interpretazioni giuridiche, anche da sinistra.

Si devono fare battaglie esplicite, che però devono accompagnarsi alla considerazione della nuova realtà sociale e lavorativa del Paese, e quindi assumere per esempio – non dico che sia l’unico punto – la questione del reddito garantito come uno degli elementi fondamentali, perché la produzione socializzata deve evidentemente determinare un reddito generalizzato.

Fra l’altro ho visto il formidabile esempio della Bolsa Familia in Brasile. Tutta la destra diceva “qui si paga la miseria, si paga il fatto che la gente non ha voglia di lavorare”, ma è esattamente il contrario: bastava entrare in una favela per capire, la trasformazione delle favela da prima a dopo è stata enorme.

Un recente studio commissionato dal governo britannico prevede che nell’arco di dieci-vent’anni, per effetto dell’automazione, si perderanno qualcosa come 10 milioni di posti di lavoro: uno tsunami…

Iniziato decenni fa.

L’editoriale del primo numero di Potere Operaio, nel ’69, parlava dell’automazione che espelle dalla produzione.

Il problema è di PRENDERE IL POTERE SULLE MACCHINE, perché, al punto in cui sono giunte oggi, l’informatizzazione e la cibernetica ci permettono di distruggere il lavoro salariato: questo è il fine del socialismo.

Si tratta di provare, sperando che non sia troppo tardi, e che la repressione non rinvii di cento-duecento anni questo tipo di insorgenza.

Questa sua autobiografia, pur con molti riferimenti al dopo e all’oggi, si chiude con gli arresti del 7 aprile del ’79. Perché questa scelta ?

Perché si tratta di un periodo di storia vergognosamente cancellata.

Dopo ci sono i documenti dei tribunali, i libri che abbiamo scritto e che sono diventati importanti, i nuovi movimenti, le nuove forme di organizzazione.

Ho sentito l’esigenza di scrivere questo libro perché dovevo scaricarmi di una serie di cose che sentivo la necessità di togliere dalla mia anima (nota mia: anima? ANIMA?), quindi c’è stato un mio bisogno.

E ho voluto rivendicare gli anni sessanta e settanta, dentro un’esperienza che, pur con le specificità della mia storia, è alla fin fine abbastanza tipica di un militante di quell’epoca, con una filigrana comune ad una generazione anche molto più ampia di quella che è finita in galera.

Io non sono mai contento delle cose che scrivo: ma questa volta sì.


da Carmela in e-mail il 20 Maggio 2016 dc:
In morte di Marco Pannella.
Voci fuori dal coro

dal sito https://invictapalestina.wordpress.com



Lo ricordiamo in questa divisa da miliziano croato durante la guerra fratricida della Jugoslavia negli anni 90 (tanto per ricordare, i nostri concittadini Lucchetta, Ota, D’angelo, inviati RAI furono uccisi a Mostar da una granata dei separatisti croati, quelli di cui il “gandhiano” Pannella vestiva orgogliosamente la divisa).

Come “gandhiani” i radicali negli ultimi anni hanno auspicato interventi militari in ogni dove.

Come difensori dei diritti civili, negli ultimi demenziali referendum che lanciavano (e poi per fortuna non tutti passavano) c’erano i prodromi di quella distruzione dello stato sociale che oggi Renzi ha messo in pratica (e forse non è un caso che Renzi sia uno di coloro che più piangono Pannella).

Ricordiamo il riciclaggio operato dal Partito radicale nei confronti di terroristi neofascisti come Mambro e Fioravanti, cui fu data la possibilità di lavoro esterno proprio grazie alle strutture del Partito radicale (Nessuno tocchi Caino) e forse per ringraziamento, se non per contiguità ideologia, Mambro è stata per anni dirigente radicale. Ma anche il pluriassassino fascista Pierluigi Concutelli ad un certo punto è stato riciclato nel Partito radicale.

Partito che tanto progressista e libertario si presenta, che non considera la necessità dell’antifascismo (ciò ci ricorda anche le posizioni più recenti dei seguaci di Grillo e Casaleggio), al punto da dire (parola di Pannella): “Almirante non è un rottame fascista. Il fascismo è qualcosa di maggiore e tremenda dignità”.
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E potremmo continuare… per decenni i radicali si sono appropriati delle lotte per il divorzio e l’aborto (salvo votare contro la legge quando fu presentata in parlamento) che erano state condotte dai movimenti di base, dalle donne, dai compagni (i veri compagni, non i radicali i cui rapporti con i finanziamenti USA non sono stati mai chiariti.

Oggi è morto il maggiore leader di quel partito anticomunista ed antioperaio che ha ridicolizzato l’istituto estremo dello sciopero della fame (vi è chi lo ha portato fino alle estreme conseguenze, come l’irlandese Bobby Sands o il tedesco Holger Meins, che non sopravvissero, alla faccia delle brioches e del cappuccino con cui Pannella “digiunava”), e che ha riciclato fascisti e terroristi, che ha plaudito ad interventi armati dell’Occidente contro nazioni che volevano soltanto autodeterminarsi.

Non abbiamo pianto per Andreotti, né per Casaleggio. Non piangeremo neppure per Pannella, statene certi.

fonte: La Nuova Alabarda

Pannella a una manifestazione sionista

“Con Marco Pannella scompare un grande amico di Israele e del mondo ebraico. Ma soprattutto un uomo straordinario, una persona la cui forza di volontà ha permesso di smuovere le montagne per condurre battaglie che si sono rivelate fondamentali per la crescita e il progresso democratico del paese intero. Grazie Marco, non sarai dimenticato”.

Così il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna in una nota.

fonte: http://moked.it/blog/2016/05/19/marco-pannella-1930-2016/



Pannella è morto ed, ammonisce un vecchio adagio,  dei defunti non si deve dir nulla se non bene, forse nel timore che i medesimi, offesi, vengano a tirarci i piedi di notte. Per cui la morte è il momento in cui ricordare solo i meriti (ed anche al di là della loro effettiva portata) dimenticando magnanimamente colpe ed errori.

Personalmente non ho mai creduto in questa ipocrisia funeraria, per la quale sono stati tutti uomini grandi ed incompresi dai loro contemporanei: la liturgia del “coccodrillo” mi ha sempre fatto un po’ schifo. Dico subito che, sul piano politico –e quindi storico- dò un giudizio prevalentemente negativo della sua opera e dell’eredità che lascia.

Il personaggio ha meriti e non piccoli, come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica ecc. di cui gli va dato atto lealmente. Ma ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neo liberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) ed a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti, l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centro sinistra e centro destra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali, le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para fiancheggiamento. Altra battaglia ambigua fu quella ecologista, che, se da un lato apriva la strada ad una più matura riflessione sul rapporto fra uomo ed ambiente naturale, dall’altro ebbe una infelice connotazione antindustrialista.

Pannella, ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti, con un sostanziale rifiuto della dimensione strategica della politica, surrogata dalla totale delega all’estro momentaneo del leader (massima negazione del principio di democrazia, tanto diretta quanto rappresentativa) e dalla sua abilità nel manipolare le folle. Soprattutto, Pannella ha colpe imperdonabili sul piano dell’involuzione costituzionale del paese: a lui  (ed a Occhetto e Segni) dobbiamo il colpo di Stato del 1993, quando la fine del sistema elettorale proporzionale ha aperto la strada allo sventramento della Costituzione e, paradossalmente alla definitiva deriva oligarchica del regime: il Parlamento dei nominati ha la sua premessa logica nella battaglia pannelliana per il maggioritario uninominale. E, con questo, è stato l’alfiere di un ceto politico senza qualità, l’élite senza merito.

Né si può tacere la sua grande disinvoltura sul tema della cd questione morale: fu un gran fustigatore dei costumi, durissimo  accusatore delle greppie di regime, ma la sua battaglia contro i fondi neri dell’Eni, a metà anni sessanta ebbe come sbocco la costituzione della Radoil, titolare di due pompe di benzina generosamente concesse da Cefis e che a lungo provvidero alla sopravvivenza del Pr e sua personale.

Quale sia il giudizio che se ne voglia dare, Pannella ha attraversato gran parte del settantennio repubblicano, con una stagione di notevole fortuna fra gli ultimissimi anni sessanta ed i primi novanta. Un ventennio in cui esercitò un ruolo politico il cui peso fu sempre superiore alle magre percentuali elettorali che raccoglieva (e che mai raggiunsero il 4%, con l’eccezione unica ed effimera delle europee 1999). Molto di quel che è diventato questo paese oggi, nel bene, ma più ancora nella degenerazione e nella decadenza, è dovuto a Pannella: l’Italia è diventata, in parte per la sua opera, un paese più laico, più moderno, ma anche più cinico, più “americanizzato”, più oligarchico, meno industriale e più povero, diciamolo: più squallido,
Quanto alla sua eredità, quella di cui andare meno orgogliosi è stato il lascito di un ceto politico che  ebbe nel Pr la sua culla originaria: i Rutelli, i Giachetti, i Della Vedova, gli Elio Vito, eccetera eccetera eccetera. Giudicate voi. Un esame storico puntuale e documentato richiederebbe molte pagine che qui ed ora non sono possibili. L’uomo è stato complesso e tanto celebrarlo con scontati encomi quanto liquidarlo con giudizi sprezzanti sarebbe fargli torto. Si impone un giudizio equilibrato che rimandiamo meno frettolosa  occasione ed ambito più consono. Qui ci basta un giudizio breve e sintetico che vede le ombre prevalere sulle luci, ma che comunque indica in Pannella uno dei grandi protagonisti del settantennio repubblicano.

Aldo Giannuli


fonte: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16481&mode=thread&order=0&thold=0

da Dino Erba l'8 febbraio 2016 dc:
Ricevo e doverosamente diffondo di fronte a troppo indulgenza nei confronti di Bergoglio (alias Franceso I)

Desaparecidos,
chiamatemi Bergoglio

di Roberto Massari
Fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

Bergoglio giovane gesuita in Argentina      Da vari decenni i desaparecidos argentini chiamano Jorge Bergoglio (Provinciale dell'ordine dei Gesuiti al momento della loro morte), ma lui continua a non rispondere. E ora, anche da papa, Francesco non sembra intenzionato a chiedere perdono per il comportamento suo e dell'alta gerarchia cattolica negli anni di maggior ferocia dei militari al potere (1976-79, nel quadro di una dittatura durata dal 1976 al 1983). Quelli furono anche gli anni più propizi per la sua carriera ecclesiastica: fu infatti Provinciale - la massima autorità nazionale dei gesuiti - proprio dal 1973 al 1979, l'anno in cui al vertice della Celam a Puebla si batté in prima linea nella condanna della teologia della liberazione. A partire da quell'anno fatidico, la sua carriera fu tutta in salita, fino ad arrivare dove sappiamo.
    In questi giorni è in uscita un film - Chiamatemi Francesco, diretto da Daniele Luchetti e prodotto da Taodue, di proprietà del gruppo berlusconiano Mediaset - che torna su quelle tragiche vicende, col preciso impegno di assolvere papa Francesco proprio in relazione a ciò che fece (e soprattutto non fece) negli anni peggiori della dittatura. Non trascura nemmeno le accuse specifiche riguardo al sequestro di due suoi confratelli (Jalics e Yorio) che furono subito rivolte contro di lui dai diretti interessati e poi riprese agli inizi di questo millennio in due libri del celebre giornalista Horacio Verbitsky (entrambi tradotti in italiano dalla Fandango, anche se ben pochi lo sanno, visto che su questi due libri vige la più ferrea congiura del silenzio).
    Si tratta di un'operazione cinematografica un po' maldestra di camuffamento delle responsabilità di Bergoglio, anche se il film non esita a mostrare una parte della colpa che ebbe la gerarchia cattolica per i massacri di quegli anni terribili. Il film, infatti, compie un'operazione politica molto precisa: mentre abbandona l'alta gerarchia cattolica argentina al giudizio della Storia (visto che le sue colpe sono indifendibili e comunque appartenenti a un sempre più lontano passato), allo stesso tempo tenta disperatamente di salvare il soldato Bergoglio (in fondo era pur sempre un subordinato, un gesuita sottoposto a disciplina quasi militare nei confronti del suo Superiore, Pedro Arrupe, Preposito Generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983).
    Va però detto che anche la denuncia delle responsabilità della Chiesa nel film è tendenziosamente insufficiente, visto che non compare mai il nome del numero uno della gerarchia cattolica che fu il maggior complice dei militari: Pio Laghi, nunzio apostolico in Argentina dal 1974 al 1980. Per avere un'idea del suo ruolo (oggetto di polemiche anche in ambienti cattolici), basti dire che con il generale piduista Massera giocava a tennis, mentre nel Paese scomparivano ad opera dei militari circa 30.000 persone, molte dopo indicibili torture e trattamenti disumani d'ogni genere.

     È certamente un'ironia della società dello spettacolo che il compito di assolvere il Papa argentino-astigiano sia affidato a un regista laico, dotato alle spalle di una robusta cinematografia di denuncia (Il portaborse, Mio fratello è figlio unico, La scuola) della quale io rimango personalmente grande ammiratore, nonostante la caduta verticale e abissale di questo film.


Uno di quegli autori, per giunta, che non hanno mai capito bene cosa sia stato lo stalinismo e quindi si dichiarano ancora «nostalgici del vecchio Pci» e si vantano di aver fatto parte della Fgci (intervista a Vittorio Zincone sul suppl. Sette del 4/12/15, p. 42). E proprio questo serviva al Vaticano: un regista laico, fin qui onesto e attendibile, non accusabile di clientelismo o clericalismo, che fosse disposto a farsi carico della triste bisogna. Operazione andata «miracolosamente» in porto, sia pure attraverso un canale berlusconiano - cosa che farà storcere il naso a qualcuno, ma non al sottoscritto.
    Non si pensi che il film abbia perlomeno il merito di denunciare le malefatte dei militari argentini, svolgendo una funzione di risveglio delle coscienze su tale tema fuori del Paese. Perché il tema invece è mondialmente conosciuto, arcipubblicizzato e dibattuto non solo tramite le centinaia e centinaia di inchieste giornalistiche (che non sembrano finire mai, anche grazie al lavoro delle Madres e delle Abuelas de la Plaza de Mayo), ma anche con i libri, i processi nei tribunali di vari Paesi (Europa e Italia inclusa), le rappresentazioni teatrali, i documentari e i molti film che cominciarono a uscire appena finita la dittatura. Ecco un elenco dei soli lungometraggi, escludendo quindi i documentari: La storia ufficiale, di Luis Puenzo (1985); La notte delle matite spezzate, di Héctor Olivera (1986); La morte e la fanciulla, di Roman Polanski (1994); Garage Olimpo, di Marco Bechis (1999); Figli - Hijos, di Marco Bechis (2001); Immagini, di Christopher Hampton (2002); Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977, di Adrián Caetano (2006); Complici del silenzio, di Stefano Incerti (2009).
    L'operato di Luchetti non può quindi giustificarsi nemmeno all'insegna orrida del fine che giustifica i mezzi, e cioè che egli avrebbe scelto di fornire una copertura a Bergoglio allo scopo di far risaltare meglio la denuncia delle mostruosità dei militari argentini. No. Il compito era chiaramente e programmaticamente stabilito: salvare il soldato Bergoglio, come già detto, anche a costo di lasciare indifesa la gerarchia argentina. E Paola Casella - che nella sua recensione in mymovies.it si sbilancia fino ad affermare che Luchetti e il produttore Valsecchi non hanno chiesto la collaborazione del Vaticano - non deve aver visto il film sino alla fine. Perché proprio nell'ultima scena (di repertorio) compare il Papa neoeletto, quello vero, mentre pronuncia la storica frase di saluto al pubblico in piazza S. Pietro. E il diritto (copyright) di utilizzare una simile storica scena non sarebbe mai stato concesso alla produzione, senza un accordo preliminare e un'attenta analisi della sceneggiatura da parte vaticana. Di questo si dà conto nei titoli di coda che, peraltro, scorrono troppo rapidi per poter vedere chi ha effettivamente aiutato per la realizzazione del film. Io ho fatto appena in tempo a individuare 3 o 4 istituzioni militari argentine; ma sarebbe interessante stabilire quali, esattamente - cosa che potrò fare solo quando sarà disponibile il DVD.
    E in effetti, l'altro grande assente - oltre al Vaticano (Paolo VI fino al 1978, poi Giovanni Paolo II, la Curia romana sempre) e alle personalità dell'alta gerarchia cattolica argentina - è proprio il potere, quello vero, quello che utilizzava i militari assassini per porre termine a un periodo di grande insubordinazione sociale, cominciato all'epoca del Cordobazo (1969) e proseguito col ritorno di Perón nel 1973. Jorge Rafael Videla compare in un'intervista televisiva, ma non viene tirato in ballo nessun partito politico, nessun alto comando o arma militare, nessun'azienda o gruppo di potere finanziario: nemmeno quell'ala destra della burocrazia sindacale (coi suoi criminali matones) che trasse enormi vantaggi dall'assassinio sistematico delle avanguardie operaie.
    Nel coro prevedibile di recensioni entusiaste o comunque favorevoli al film, abbiamo trovato ben poche voci critiche. Va quindi citata in modo particolare quella che ci è parsa più precisa e coraggiosa (Valerio Caprara su Il Mattino).
    Le critiche riguardano ovviamente la mistificazione operata dal film. Ma la mistificazione non va intesa solo in senso storiografico: in ultima analisi, non sarebbe infatti compito del cinema stabilire l'esatta sequenza degli avvenimenti e le modalità del loro svolgimento. Questa è opera dello storico. Il linguaggio del cinema opera diversamente, avendo a disposizione molteplici e quasi infinite possibilità tecnico-artistiche.
   
    Per es. in questo caso Luchetti basa gran parte del film sulla rappresentazione filmica di cosa Bergoglio potrebbe aver pensato in occasione di determinati assassini, di arresti, di incontri con tanta povera gente ecc. Ebbene, questo procedimento del film è in primo luogo monotono e ripetitivo. Ricorrono situazioni molto uguali fra loro (per lo più drammatiche) che si riflettono senza grandi variazioni nelle espressioni un po' statiche del volto del povero Rodrigo de la Serna (qui impegnato a rendere vero l'impossibile), che invece era parso magnifico nella parte di Alberto Granado nei Diari della motocicletta (a differenza del collega Gael García Bernal nei panni del giovane Ernesto).
    In secondo luogo è arbitrario: la sofferenza interiore di Bergoglio viene data come fatto certo, gli si mettono in bocca parole e riflessioni tutte uguali, incontrovertibili, senza sconnessioni, cambiamenti di opinione o momenti di eroismo (mentale) od opportunismo (anch'esso mentale). Un fatto che certamente contribuisce a costruire l'immagine del santino (indubbio l'intento agiografico anche nel tipo di inquadrature, i primi piani accattivanti, la modestia nel vestire, l'essenzialità dei movimenti) che qualcuno ha già timidamente riconosciuto nella figura attoriale del futuro Papa.
    Del resto, diciamocelo una volta per tutte: questa indagine retrospettiva di cosa può aver provato Bergoglio davanti allo sterminio dei suoi connazionali e, concediamolo pure, magari davanti alla propria impotenza nel porvi termine, avviene oggigiorno, a tanti anni di distanza e solo perché Bergoglio è diventato papa. Altrimenti la sua storia personale, il suo tormento interiore e gli accomodamenti che deve aver trovato con la propria coscienza per non essere travolto dai complessi di colpa, sarebbero scomparsi nell'anonimato come tanti altri. La sua vicenda interiore si sarebbe dissolta nel nulla, alla pari dei molti altri prelati responsabili come lui, alcuni certamente complici, che rifiutarono di fare alcunché per fermare i militari e impedire lo sterminio di un'intera generazione intellettuale e militante, la «meglio gioventù argentina».
De la Serna-Bergoglio nel film "Chiamatemi Franceco"
 
  Il film opera una mistificazione cinematografica ancor più grossolana, ma che purtroppo avrà presa sulla fantasia degli spettatori, facendo vedere per gran parte del tempo Bergoglio impegnatissimo a nascondere persone (in genere seminaristi), a far uscire ricercati dalla cintura di Buenos Aires, insomma a fare cose di nascosto per salvare vite umane.
    E su questo aspetto fondato su leggende postume e testimonianze di comodo - che ho denunciato in alcune mie lettere a un sacerdote amico, dotato di spirito critico e onestà intellettuale - emerge la vera truffa del film: a) di queste attività segrete non vi è alcuna traccia documentaria (né potrebbe esservi - quindi mistificazione storiografica), ma solo resoconti verbali registrati a decine di anni di distanza e soprattutto dopo l'elezione di Francesco; b) non sono questi gli interventi che ci si attende da un Provinciale che voglia impedire lo sterminio: un alto esponente della gerarchia deve procedere per via gerarchica, deve far pesare la propria carica, deve utilizzare l'arma della denuncia pubblica e se non basta anche quella dello scandalo pubblico, per salvare vite umane. In tal modo non ne salverebbe una dozzina o due (come viene fatto vedere nel film, ipocritamente e forse anche falsamente), ma ne salverebbe centinaia, addirittura migliaia se il suo esempio diventasse contagioso e si estendesse ad altri prelati, ad altri membri della gerarchia. Certo, rischierebbe di essere ucciso, ma in assenza di questo suo impegno sono altre migliaia di persone che vengono uccise al suo posto, e tra queste anche dei sacerdoti di base.
    Non mi stancherò mai di estendere questo ragionamento a tutti coloro che detengono incarichi di potere pubblico e mirano ad accreditare un proprio presunto interessamento per le vittime fondato su iniziative private, personali, clandestine e misteriose. Ne è un triste e massimo esempio Pio XII, che dopo aver lasciato inerme il popolo ebraico in mano alla furia nazista ha incaricato la propaganda vaticana di inventare suoi personali interventi a favore di questo o quell'ebreo, di questo o quel ricercato dai nazisti. Truffa di basso livello, che però ha presa su chi vuole crederci. Come Papa aveva a disposizione il prestigio di un presunto vicario di Dio sulla terra e il potere dell'apparato vaticano mondiale. A quel livello si sarebbe dovuto muovere, ma di quel livello non esiste la benché minima traccia scritta o documentaria che possa attestare una sua opposizione alle persecuzioni naziste. Lo stesso vale, sia pure in scala minore, per l'indifferenza di Bergoglio nei confronti dell'eccidio perpetrato dalla dittatura militare durante il suo Provincialato.
    La regia del film è monocorde, ha la forma di un documentario privo di agganci storici reali, di un documentario senza documentazione, per giunta di un documentario che vuole presentarsi come una fiction storicamente fondata. Le riprese in esterni battono ripetitivamente sul tema della miseria, dando così un'immagine terzomondistica dell'Argentina, il che è ridicolo soprattutto per una delle più moderne città «europee», come Buenos Aires. La sceneggiatura è fatta di dialoghi improbabili, irrealistici, retorici e ovviamente reticenti. Ma la cosa peggiore del film è che non c'è mai un guizzo di fantasia, un qualcosa che non appartenga al mondo interiore di un Bergoglio presuntamente sofferente e ci riservi qualche sorpresa, qualche contrappunto filmico. Insomma, manca l'arte cinematografica. Quella che invece c'era, tanto per fare un esempio, in un film per molti aspetti analogo - La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo - che senza allontanarsi troppo dalla realtà politica riusciva veramente ad appassionare lo spettatore, facendolo sbandare, cadere e riprendersi, parteggiando e allo stesso tempo provando sgomento nell'identificazione coi personaggi sullo schermo. Ma quella era arte, anche se di parte, e non importa che stesse dalla parte «giusta», a differenza del film di Luchetti, schierato in una presunta terza posizione neutra mentre si compie un massacro epocale sotto i suoi occhi. Quella di Pontecorvo era un'opera d'arte che faceva anche propaganda a favore di certe idee anticoloniali e antimperialistiche. Questo è un film servile, di mera propaganda, studiato a tavolino, commissionato dal Vaticano o da chi intendeva fare un regalo a Francesco (magari per difenderlo dalle congiure di palazzo interne alla Curia, delle quali si mormora da un po' di tempo in qua), e comunque utile nel presente e nel futuro per dare una copertura al passato di questo Papa testimone diretto e attivo/passivo di una delle più grandi e più crudeli tragedie del dopoguerra.
   
Laghi, Bergoglio e Gualtieri durante la dittatura in Argentina
Pio Laghi, Jorge Videla e Leopoldo Galtieri
    E poiché la società dello spettacolo nel suo insieme - della quale Francesco mi sembra un ottimo esponente manipolatore - sta accreditando un'immagine simpatica, umana e gradevole di questo Papa, per le masse cattoliche e non (in un momento tra l'altro in cui tende a crescere la contrapposizione cattolica all'islamismo), la mistificazione di questo film avrà certamente facile presa anche sui non credenti, e anche gli spettatori laici gli perdoneranno facilmente il fatto d'essere monotono, retorico, agiografico e cinematograficamente poco gradevole.
    Ecco, se potessi io farei invece un film al limite del surreale sugli incubi notturni di quest'uomo che, a differenza di Luchetti, sa bene di quali colpe si è macchiato nell'ambito della Chiesa argentina, ma non intende chiedere perdono. E quindi è giocoforza pensare che ai desaparecidos toccherà ancora per molto tempo, forse per sempre, continuare a chiamarlo per nome dal buio vortice del loro martirio: Jorge Bergoglio.

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    PER COMPLETARE LA RECENSIONE DEL FILM SOPRA ESPOSTA E PER FORNIRE AL LETTORE QUALCHE ARGOMENTAZIONE SULLE RESPONSABILITÀ DI BERGOGLIO ALL'EPOCA DELLA DITTATURA, SIA IN GENERALE, SIA IN PARTICOLARE PER LA VICENDA DEI DUE GESUITI SEQUESTRATI DOPO CHE LUI AVEVA TOLTO LORO LA COPERTURA DELLA VESTE SACERDOTALE, ALLEGHIAMO LE LETTERE SCRITTE DA MASSARI NEL 2013 A UN SACERDOTE CHE AVEVA SOLLECITATO UNA SUA OPINIONE. SONO LETTERE INEDITE, UTILI COME ANTIDOTO ALLE MISTIFICAZIONI DEL FILM DI LUCHETTI. [la Redazione]

    Caro don F.,
    questa mattina ho finito di leggere il libro di Horacio Verbitsky [L'isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, Fandango, 2006] e dire che sono sconvolto è dire poco. Il fatto è che uno le cose per grandi linee le sa, ma finché non entra nei dettagli non si rende conto veramente di cosa può essere accaduto. Credo che dopo il Gulag staliniano, l'Olocausto nazista e il genocidio degli Armeni, il crimine dei militari argentini degli anni '70 possa rientrare al quarto posto nella graduatoria dei grandi crimini dell'umanità e contro di essa nel Novecento. Lascio da parte l'Inquisizione perché la sua azione si è svolta nei secoli passati e non si è conclusa nel giro di pochi decenni o pochi anni. E quindi la si può collocare fuori graduatoria.
    Detto questo, le responsabilità dei vertici della Chiesa argentina (ma indirettamente anche di quella di Roma) sono gravissime. Tutti i principali dirigenti dell'epoca sono stati coinvolti moralmente, psicologicamente, sul piano informativo e nella consegna del tacere. Nessuno di loro si è differenziato, nessuno di loro ha denunciato nulla, nessuno di loro ha rinunciato alla carica che ricopriva pur di non assistere a quel mostruoso massacro, fatto anche di torture, menzogne, depistaggi e richieste di benedizioni cristiane. Queste non sono mai mancate. Così come non sono mancati rapporti amichevoli tra i carnefici militari, gli alti prelati e addirittura il nostro Licio Gelli della P2.
    Pazzesco. Pio Laghi (capo della Nunziatura apostolica argentina) giocava a tennis col sanguinario Massera (a sua volta membro della P2). C'è chi dice «spesso»; lui dice «solo» 4 volte…
    Non si può ovviamente condannare la Chiesa argentina in blocco, perché molti sacerdoti hanno cercato di opporsi, alcuni sono stati uccisi, apertamente come Mugica o desaparecidos come vari altri. Anche delle suore sono state uccise. Il tutto sempre senza alcuna protesta ufficiale da parte della gerarchia cattolica. I cognomi più celebri di questa gerarchia sono Laghi, Grasselli, Bergoglio, Aramburu, più o meno nell'ordine in cui li ho citati. Il silenzio della gerarchia sui sacerdoti torturati e uccisi ricorda quello di Pio XII sulle rappresaglie naziste e il suo legame stretto col Terzo Reich.
    Per quanto riguarda Bergoglio, nella questione dei due poveri sacerdoti, Yorio e Jalics, diventa secondario stabilire fino a che punto egli sia stato coinvolto. Sulla base della documentazione si ha certezza fino al punto seguente: Bergoglio squalificò i due sacerdoti impegnati nel sociale tra i poveri, tolse loro la copertura della Chiesa ufficiale e quindi li lasciò inermi nelle mani dei torturatori. Se li abbia anche denunciati come delatore non si saprà forse mai e in fondo è secondario: quanto sopra già basta. Inoltre non fece nulla per salvarli per almeno cinque lunghissimi mesi. Se poi sia veramente interceduto al momento del loro rilascio, non si saprà forse mai. Tutte le attuali testimonianze a favore suo sono ridicolmente false e create post hoc. Così come lo sono i passi indietro compiuti da Jalics sul terreno della denuncia delle responsabilità di Bergoglio.
    Ma a me il crimine nei confronti dei due sacerdoti (e almeno di altri due, stando a vecchie testimonianze) sembra niente rispetto alla complicità - più o meno attiva, più o meno silenziosa - con tutta l'operazione repressiva dei militari contro il popolo argentino e contro la sua parte più progressista. Capisco che per il sensazionalismo giornalistico è più importante cogliere il Papa con le mani nel sacco rispetto al sequestro dei due sacerdoti. Ma per la mia coscienza morale è molto ma molto più grave il coinvolgimento morale, sia pure passivo, sia pure indiretto in quel folle massacro ai danni della parte migliore del popolo argentino.
    Riguardo a Verbitsky. Il suo primo articolo sui desaparecidos è di settembre del 1990. Da allora si è trasformato nella massima autorità sul tragico tema. Il suo primo libro El vuelo (Il volo, Fandango, 2006) uscì nel 1995. L'attuale libro [El silencio (L'isola del silenzio, Fandango, 2006)] uscì nel 2005, prima della morte del precedente Papa e quindi non in tempo per sapere che vi sarebbe stato un ballottaggio tra Ratzinger e Bergoglio. [Vai a capire perché già allora la stella di Bergoglio fosse ascesa così in alto… Una spiegazione viene quasi automatica, ma di ciò si può parlare in altro momento, rientrando essa nel campo della politica e non di denuncia della ferocia e della vigliaccheria umana.]
    Il libro di Verbitsky contiene un capitolo supplementare, un epilogo per l'ed. italiana, in cui Verbitsky scrive:

        «Una siffatta concomitanza [il ballottaggio tra Ratzinger e Bergoglio] ha conferito a questa inchiesta storica su fatti avvenuti tre decenni addietro nella ESMA un'attualità che non ho mai cercato e che non potevo prevedere, ma che non posso eludere ora che Benedetto XVI si avvicina agli ottant'anni e non è da escludersi che in un futuro conclave si prenda nuovamente in considerazione il nome di Bergoglio, che ha avviato un'aperta campagna di proselitismo».

    Parole preveggenti che hanno precorso la scelta del conclave. E ancora: possibile che i cardinali lì riuniti ignorassero i trascorsi di Bergoglio? possibile che non avessero un'altra carta da giocare, magari sempre latinoamericana e ugualmente utile per contrastare lo spostamento politico a sinistra delle società latinoamericane e quindi, inevitabilmente, anche del loro clero?
    Francamente non riesco a darmi una risposta a questi ultimi interrogativi.
    L'epilogo quindi è stato scritto nel 2006, in tempi ancora insospettabili, mentre la documentazione fornita è tutta o quasi tutta degli anni '70. Questi dati cronologici rendono il libro serio, attendibile e inconfutabile (se non con la «scoperta» successiva di testimonianze e carte a discapito, sulle quali si chiederà un atto di fede, quasi come sulle stimmate di Padre Pio…).
    Horacio Verbitsky
    Resterebbe anche da chiedersi perché della traduzione del libro di Verbitsky in italiano nel 2006 si è parlato pochissimo nei giorni della nuova elezione. A parte il caso tragicomico mio (che il libro non sapevo di averlo in casa e ignoravo addirittura che esistesse in lingua italiana), rimane il fatto che è stato messo a tacere tutto subito. Il nome di Verbitsky non è affiorato seriamente da nessuna parte. E ovviamente nessuna televisione si è premurata di andarlo a intervistare (che io sappia, ma visto che non ho la televisione sono fonte poco attendibile…)
    Non ti scrivo questo per aggiungere turbamento o per fare propaganda anticlericale. E non desidero nemmeno avviare una discussione sul tema (con la documentazione fornita da Verbitsky c'è poco da discutere: è un capitolo chiuso in termini storiografici). Lo faccio perché non ritengo giusto tacere su queste responsabilità della Chiesa argentina (e quindi su quelle di Bergoglio come Provinciale, capo supremo dei Gesuiti, al suo interno). Ciò non significa misconoscere o minimizzare ciò che di buono potrà fare papa Francesco. Lo dissi subito e lo confermo: ben venga ogni atto di progresso che questo Papa vorrà fare o stimolare. Significa semplicemente che devo dire ciò che è vero, storicamente vero e inoppugnabile - tacere (se interpellato) farebbe di me un complice postero o postumo della tragedia intercorsa.
    Dopodiché i Cristiani possono anche perdonarlo, come è loro richiesto dalla dottrina evangelica (beh, non tutta - Zarcone docet…). Non vorrei però trovarmi nella posizione del cattolico o della cattolica argentina che abbiano perso dei parenti in quel periodo (in quel modo disumano) e che siano allo stesso tempo consapevoli della complicità delle alte gerarchie cattoliche. La dottrina chiederebbe anche a loro di perdonare. Ma sarebbe umano attendersi che essi possano riuscire a farlo?
    E come corollario mi chiedo: esistono argentini parenti delle vittime dei militari che si sono sentiti violentati una seconda volta per l'elezione di Bergoglio al soglio pontificio, nonostante si conoscessero le sue responsabilità, pubblicamente perlomeno dal 2005?
    E se esistono, è giusto che tacciano, in omaggio al principio del fine che giustifica i mezzi? Dixi et salvavi (parzialmente) animam meam.
    Saluti,
    Roberto
    (4 dicembre 2013)
    ___________________

    Caro don F.,
    ho riletto l'articoletto che mi hai mandato (che non è l'articolo della Frankfurter, bensì un riassuntino fatto da uno dei più inattendibili grandi quotidiani italiani, cioè Repubblica). Tenendo conto che leggiamo solo frasi tratte dalle lettere di Bergoglio e niente di ciò che gli devono aver scritto i parenti implorando probabilmente il suo intervento [per i due sacerdoti gesuiti: Jalics e Yorio], ne ricavo alcune conclusioni logiche:
    1) Il Neopapa (all'epoca Provinciale dei Gesuiti) non aveva fatto nulla o quasi nulla per liberare i confratelli, altrimenti avrebbe riferito qualcosa al fratello di uno dei due sacerdoti o ai parenti, magari senza nomi e cognomi, ma certamente riferendosi ad atti concreti. Foss'altro che per alleviare la pena dei parenti. (Aggiungo che se si fosse mosso, avrebbe sicuramente ottenuto dei risultati. In fondo i militari si erano permessi il sopruso solo perché lui aveva tolto la copertura ecclesiale a quei due poveri disgraziati. Poteva sempre rimettercela.)
    2) Dice di aver sempre saputo che erano vivi, ma lo dice all'indomani della loro liberazione. Quindi o mentiva in quel momento (in realtà non ne sapeva più nulla) o non aveva fatto alcun passo concreto in precedenza, perché in tal caso avrebbe saputo che erano vivi e lo avrebbe comunicato ai parenti.
    3) La pubblicazione di queste lettere risparmia allo studioso la fatica di andare a cercarne altre. Se esistessero, le avrebbero prodotte «loro». Pur di arrampicarsi sugli specchi, hanno deciso di gonfiare riferimenti insignificanti e ipocriti (dai quali però si arguisce che Bergoglio non aveva mosso un dito per i confratelli).
    4) Fanno bene i giornali argentini che ricordano che il problema in quegli anni non era solo Bergoglio, ma l'insieme della gerarchia ecclesiastica connivente in un modo o nell'altro con i militari assassini. Bergoglio non era l'eccezione, ma la regola.
    5) Ridicola l'accusa a Horacio Verbitsky di utilizzare vecchi materiali. E che deve fare un giornalista coscienzioso che si è già occupato nel passato di queste cose: deve inventarne di nuovi? Casomai dovrebbero giustificarsi i cardinali del Conclave che, pur esistendo da tempo questi materiali, hanno ritenuto ugualmente di poter nominare Bergoglio. (Domanda ingenua e maliziosa allo stesso tempo: ma veramente non potevano trovarne un altro, diciamo «incensurato», da eleggere?)
    Emilio Massera
    6) Oggi i giornali parlano di un comunicato della Corte suprema (giudiziaria?) argentina che scagiona Bergoglio da qualsiasi accusa di complicità con i militari assassini. Insomma, il vicario di Dio in terra esce assolto per insufficienza di prove da una sentenza dell'apparato giudiziario argentino. Fossi Dio mi arrabbierei un po'. Ma poi, al pensiero di quante ne ho dovute vedere nella storia della Chiesa degli ultimi duemila anni, ben peggiori di queste, mi calmerei e procederei al perdono, come ha generosamente fatto padre Jalics. Io (in quanto Roberto M. e non Dio) non ne sarei stato capace. Lo ammetto. Il perdono è una grande invenzione del Nuovo Testamento assente per lo più dall'Antico che non ha mai fatto breccia in me. Il perdono io posso intenderlo solo come un recupero, uno scambio alla pari: hai fatto tot male e la società ti perdona solo se ripaghi con tot bene. È un principio che in parte rientra nella moderna giurisprudenza volta al recupero del peccatore (criminale) piuttosto che al castigo.
    7) Rimane il fatto che la macchia sul passato di papa Francesco esiste, è documentata, è pubblica, è conosciuta e si tramanderà nel tempo, passando di bocca in bocca, come del resto sta già accadendo sulla stampa e in Internet.
    8) Vedo due conseguenze politiche, una cattiva e una buona: a) la cattiva è che papa Francesco dovrà essere grato al governo di Cristina Kirchner (o chi dopo di lei) per non aver voluto approfondire la vicenda e comunque per non aver voluto approfittare. Quindi Papa condizionabile da parte del governo argentino. b) La buona è che il nuovo Papa dovrà stare attento non solo a non benedire altri dittatori e feroci aguzzini (come hanno sempre fatto i suoi predecessori, da Paolo VI in poi), ma dovrà anche dimostrare con le azioni che quelli sono «errori di gioventù» e che oggi è diventato molto più buono, sia verso i poveri che verso gli oppressi. Chissà che alla fine non ci guadagnino qualcosa anche i gay e i malati terminali. Per l'atteggiamento verso le donne, invece, continuo a vederla brutta.
    La parola all'Avvocato del diavolo (che in questo caso dovrebbe dimostrarsi favorevole alla santificazione di papa Francesco, al contrario di quanto accade nei processi di canonizzazione).
    Saluti,
    Roberto
    (9 dicembre 2013)
    ___________________

    Caro don F.,
    sei libero di utilizzare il mio testo come meglio ti sembra. L'ho scritto in forma affrettata, ma avevo veramente chiuso le ultime pagine del libro di Verbitsky, quindi avevo tutto il contenuto fresco e presente alla memoria. Cosa che non si ripeterebbe tra una settimana o due. Se don Strazzari [autore di In Argentina per conoscere papa Bergoglio, Ed. Dehoniane, 2013] vuole farla circolare ulteriormente ha da subito il mio consenso.
    Per Adolfo Pérez Esquivel vale il discorso che faccio da molti anni sulla nomenklatura filocastrista (che include un paio di decine di latinoamericani e rari europei). Sono persone arrivate alla gloria in momenti diversi (quando c'era l'Urss anche grazie alla diplomazia sovietica), ma per lo più grazie ai cubani (il Premio Casa de las Américas è stato il trampolino di lancio di quasi tutti - di grandi scrittori, ma anche di nullità). Tieni conto che una certa ripartizione delle onorificenze esisteva all'epoca della guerra fredda e influenzava anche i premi Nobel. Quelli per la pace, poi… Basti pensare che un anno premiarono Arafat e Begin insieme.
    Della nomenklatura filocastrista (poi anche filochavista) più o meno filosovietica hanno sempre fatto parte l'argentino Pérez Esquivel e Rigoberta Menchú, tra i Nobel. Gli altri sono scrittori, poeti, cineasti che ai cubani (e fino a un certo punto ai sovietici) devono molto o tutto. E quindi si sdebitano restando a disposizione di Cuba e del Venezuela (con parentele secondarie a seconda dei paesi e degli eventi, in Bolivia, Brasile ecc.). Li riconosci facilmente perché sono sempre pronti a firmare tutto: che si tratti di dire che a Cuba non ci sono prigionieri politici o che gli Usa sono imbecilli (cosa verissima), le loro firme vengono raccolte nel giro di poche ore. E la firma di Pérez Esquivel non manca mai, ma proprio mai - come ho potuto verificare negli anni.
    Quindi se costui si è rimangiato le cattiverie che aveva detto su Bergoglio qualche tempo prima con tanta celerità vuol dire che da Cuba gli è arrivato l'invito a farlo. Ed io capisco che Cuba, già spalancatissima ai due Papi precedenti che l'hanno visitata, non avesse nessuna intenzione di inimicarsi l'attuale Papa, che per giunta è latinoamericano. Ti dirò in più che Fidel Castro deve ancora farsi perdonare l'aiuto politico che diede in extremis alla Giunta assassina argentina quando questa cercò di salvarsi inventandosi la guerra delle Malvinas. Fu una cosa atroce che la sinistra finse di non vedere, ma che certamente ha lasciato degli strascichi in Argentina. Insomma, Pérez Esquivel è un tipico rappresentante della nomenklatura filocastrista (un tempo filosovietica), come lo è Frei Betto, per restare in campo religioso. Betto lo è in maniera più smaccata, Adolfo Pérez ecc. lo è in maniera più ufficiale.
    Tu stesso, poi, adombri la possibilità che egli ricavi anche «adeguamenti redditizi». Adombra, adombra… perché c'è probabilmente anche questo, nel contesto però dell'autopromozione ormai pluridecennale di questa nomenklatura latinoamericana.
    A risentirci,
    Roberto
    (9 dicembre 2013)
    ___________________

    Caro don F.,
    ho letto l'articolo di Chierici. Non ne capisco il senso. L'articolo mira addirittura a fare di Bergoglio un salvatore di vittime della dittatura, che è ciò che il Vaticano sta cercando di accreditare, ma guarda caso a decenni di distanza e solo per rispondere a Verbitsky. E mi stupisce che uno come Chierici si presti al gioco. Resta il fatto che l'articolo è pessimo, sembra scritto da un focolarino. Non cita alcun fatto documentabile (le testimonianze retrospettive a decenni di distanza non hanno valore «probatorio») e s'inventa che Verbitsky (di cui sbaglia addirittura a scrivere il nome) abbia riconosciuto di essersi sbagliato. Un giornalista come Chierici avrebbe il dovere di mettere una breve parentesi sul come e il quando ciò sarebbe accaduto. A me che seguo attentamente la vicenda, non risulta. Ma ovviamente posso sbagliarmi: di qui la necessità di indicarmi data e luogo. Altrimenti è puro menar fumo.
    Divertente (ma in realtà macabro) il suo tentativo di mostrare la gerarchia cattolica divisa tra il vescovo militare Tortolo e Pio Laghi. In Argentina gli riderebbero dietro, perché il nome di Pio Laghi è ormai storicamente associato alla dittatura militare. È meglio che cerchi di salvare il nome di Bergoglio, perché quello di Laghi è insalvabile (davanti alla Storia e, se per caso esiste, anche davanti a Dio). Chierici sembrerebbe non aver letto il libro di Verbitsky, ma solo quello di Nello Scavo [La lista di Bergoglio, Ed. Missionaria Italiana, 2013] - un libro prevedibile e giustificativo. E già so che se mi capiterà di chiedergli come sia arrivato a scrivere un simile articolo, mi dirà che lui in fondo si è limitato a riportare la sostanza di Scavo, senza necessariamente condividerla. I giornalisti hanno sempre questa scappatoia, e anche per questo io mi offendo quando capita che nelle conferenze mi presentino come giornalista. Ciò che Grillo sta dicendo pubblicamente su questa ignobile casta oscurantista italiana è del tutto vero.
    Papa Pio XII
    Insisto, però, perché non ci si perda nel dettaglio, ma si abbia un quadro d'insieme di come si comportarono le massime autorità cattoliche nel periodo della guerra sucia argentina. Chi vuole intendere intenderà e chi vuole giustificare Bergoglio (che al momento debito dovrà anche essere fatto santo, come si tenta con Pio XII) lo giustificherà. Anzi, lo trasformerà in un salvatore di vittime, come Pio XII fu un salvatore di ebrei, al punto che, per meglio aiutarli, consentì che si desse rifugio ai gerarchi nazisti nei conventi e che di lì fossero aiutati a emigrare in America latina, soprattutto… toh, guarda caso… soprattutto in Argentina.
    Buon inizio di settimana,
    Roberto
    (15 dicembre 2013)
    ___________________

    Caro don F.,
    mentre apprezzo il tono fraterno delle critiche che mi rivolge Carlos María Galli (che, pur dandomi completamente torto, mi riconosce una «alta valoración de la verdad histórica y del amor evangélico»), devo dire che non le condivido nella sostanza. L'argomento del non aver vissuto in Argentina è trito e ritrito. Nessuno di noi ha vissuto nei lager nazisti o nel Gulag staliniano, eppure parliamo di questi orrori, leggiamo libri e formuliamo giudizi non necessariamente giusti o uguali tra loro. Ci sono anche russi che hanno vissuto quel periodo, perso dei parenti e sono però convinti che il Gulag sia stato tutto sommato un bene. Idem per i nativi d'America, gli zingari o il povero popolo ceceno e così via.
    L'argomento è fallace, perché potrei presentargli centinaia se non migliaia di argentini che hanno vissuto quel periodo e che gli darebbero torto. Per la cronaca, anch'io ho perso dei compagni tra i desaparecidos, ma questo non mi dà nessun vantaggio teorico.
    Ciò che scrive Verbitsky (qui ridotto a un pennivendolo da strapazzo al servizio dei Kirchner) mi stimola ad approfondire la conoscenza del personaggio. Evidentemente si dev'essere scatenata contro di lui una campagna diffamatoria senza precedenti. Eppure il tono del suo libro era sereno e rispettoso nei confronti di Bergoglio.
    Infine ho conferma di ciò che avevo anticipato fin dai primi giorni, e cioè che si sarebbe lanciata una campagna per dimostrare che Bergoglio si è impegnato seriamente per salvare le vittime del terrore negli anni della dittatura, anni in cui effettivamente avrebbe avuto la possibilità di fare qualcosa. E a questo riguardo la volontà agiografica fa perdere di vista i più semplici dettami della logica; ci si affanna a descrivere sotterfugi, appostamenti portuali o nascondigli nel cofano della macchina da parte sua - stiamo parlando del Provinciale dei gesuiti argentini, figura numero due o numero tre dell'apparato cattolico in quel Paese - e così facendo si devia l'attenzione dalla sua veste ufficiale, quella che gli avrebbe consentito di salvare apertamente, dall'«alto», non due, tre, quattro o cinque persone, ma centinaia e centinaia, se non migliaia.
    E se ciò facendo fosse caduto vittima a sua volta del terrore, avrebbe lasciato un esempio imperituro, come l'arcivescovo Romero. Oggi la Chiesa cattolica avrebbe una bandierina in più (autentica) di cui esser fiera, invece di dover stare a mettere insieme i pezzi di un puzzle artificiale (totalmente postdatato) che consenta di beatificare Bergoglio, trasformandolo da complice morale della dittatura in un gesuitico Schindler. (Altra storia in gran parte falsa, pure quella di Schindler…)
    In Italia abbiamo già assistito alla stessa procedura con Pio XII e le sue connivenze col nazismo. E se non ci fosse la comunità ebraica che continua a opporsi alla sua santificazione, anche questa vergogna passerebbe impunita.
    Mi rendo conto, però, che in questa campagna contro la verità che cerco di difendere (con strumenti non miei, ma presi a prestito) - come in tante altre della mia vita (basti pensare a quella sulle vittime dello stalinismo, la denuncia delle complicità assassine di Togliatti ecc. che mi hanno visto pagare dei prezzi molto cari in un Paese come l'Italia) - alla fine sono costretto ad arrendermi. La potenza dell'apparato mediatico che si è mosso in difesa di Bergoglio è tale da triturare anche giornalisti celebri e robusti (sto ripensando anche all'articolo di Maurizio Chierici che mi hai mandato…). Fu lo stesso con l'apparato propagandistico del vecchio Pci (Pcus e Pc cubano inclusi).
    Figuriamoci se posso contrastarla io una simile campagna. La questione è già diventata oggetto di fede: chi vorrà credere che l'alta gerarchia cattolica argentina in quegli anni non fu complice morale dello sterminio, continuerà a crederlo, pur non avendo la benché minima pezza d'appoggio: un telegramma, un comunicato, una protesta scritta, un gesto in televisione, un'intervista mirata, una via crucis espiatoria, un'intimazione di tono biblico, un libro pubblicato all'estero, una parola detta nel luogo giusto al momento giusto - niente, niente di niente di niente.
    In fondo si torna sempre all'imperituro conflitto tra fede e ragione, rendendo sempre più lontano e utopico il motto di Anselmo d'Aosta (già espresso in parte da Agostino): non quaero intellegere ut credam, sed credo ut intellegam. Che anche in questo caso diventa un quaero credere ne intellegam.
    Non mi riferisco a te e alla tua corretta posizione interrogativa - che apprezzo e rinsalda la nostra amicizia - ma ai libri che stanno pubblicando senza la benché minima documentazione che risalga a quegli anni e che sia quindi scevra da sospetti.
    Roberto
    (16 dicembre 2013)

    Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com



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    Postato da M.D.M. su RED UTOPIA ROJA il 12/07/2015 10:08:00 PM


da Dino Erba il 7 Febbraio 2016 dc:
Attualità del luddismo
Alle origini del movimento operaio, una lotta sempre disprezzata

Il luddismo evoca una primitiva reazione degli operai contro le macchine. È una visione caricaturale e fuorviante che Bruno Astarian ha giustamente criticato. Il suo scritto Falsa attualità del luddismo[1] (cui rimando) mette in luce alcuni aspetti importanti che mi incitano a tracciare alcune spontanee analogie tra il periodo in cui il luddismo nacque in Inghilterra, il decennio 1810-1820, e la situazione attuale.

Allora come oggi, ci troviamo di fronte a:

1. Una crisi economica caratterizzata da profondi mutamenti della struttura socio-economica, in particolare: innovazioni tecnologiche e formazione di un diffuso esercito industriale di riserva.

2. Un forsennato attacco statal-padronale alle coalizioni operaie (corporazioni ieri, sindacati oggi), in un momento in cui, ieri come oggi, quelle organizzazioni si mostrano inadeguate a difendere i lavoratori.

3. Imposizione di un «nuova sistema di fabbrica», ovvero nuove modalità di subordinazione del proletariato al capitale, cui consegue un netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

In poche parole, ieri come oggi, i lavoratori si trovano al centro di un triplice attacco: economico, politico e sociale.

E, ieri come oggi, la prima reazione operaia è il disperato tentativo di ristabilire lo status quo ante. Questo significa voler ritornare a una situazione economico-sociale ormai estinta (o in fase di estinzione), contro cui scoppiano appunto le crisi, creando le premesse per il mutamento. Inevitabilmente violento, nello scontro tra il vecchio e il nuovo.

Il movimento luddista, come spiega Astarian, fu presto consapevole che il ritorno al passato fosse impossibile. Motivo per cui poté affrontare la nuova situazione, ponendo le basi per il sindacalismo moderno, quello che, per almeno due secoli, ha assicurato la difesa dei lavoratori.

A questo punto, le analogie con il passato potrebbero finire. Vediamo infatti che tra l’Inghil-terra di inizio Ottocento e il Mondo di inizio Duemila c’è una sostanziale differenza.

Ieri, il modo di produzione capitalistico era nella sua fase di sviluppo e aveva tutto il «mondo» da conquistare.

Oggi, il modo di produzione capitalistico è entrato in una fase di un inesorabile declino, che lo costringe a dibattersi entro e contro i suoi stessi limiti sistemici. La via percorsa è l’apparente «conquista» di nuovi spazi che sono però tutti interni a un sistema, non più in espansione. Il capitalismo si presenta oggi come il mostruoso uroboro, il serpente che si mangia la coda.

Prosaicamente, ci troviamo di fronte a una vampiresca estorsione di plusvalore che sottopone i lavoratori a uno sfruttamento esasperato. Di pari passo, le risorse naturali subiscono un assalto senza precedenti, col rischio incombente di catastrofi.

Il crepuscolo delle macchine, e degli eroi

La prospettiva apocalittica che si profila ci dice che la lotta dei luddisti contro le macchine non è assolutamente peregrina né perenta, anzi, è oggi che diventa attuale. La macchina, come la tecnica, non è per nulla neutrale, è il frutto dei rapporti sociali. Rapporti che, oggi, hanno assunto connotazioni deleterie per l’uomo e per l’ambiente. Solo in qualche fantasia malata, può aleggiare un demenziale «uso alternativo delle tecnica». La questione è certamente assai spinosa, richiede tuttavia una riflessione per evitare imbarazzanti incertezze di fronte a fabbriche della morte, come l’Ilva di Taranto (ma sono infinite!). La soluzione non può essere rimandata all’«osteria dell’avvenire», e non neppure può ridursi a meschini escamotage (lo sviluppo sostenibile!), mentre i disastri proliferano.

Nell’esperienza luddista, ci sono altri aspetti importanti, e attuali:

- Il luddismo avanzò una prospettiva rivoluzionaria, con una chiara connotazione proletaria.

- Il movimento ebbe un carattere assolutamente anonimo. A volte, l’assenza di leader carismatici venne ironicamente ostentata da un Uomo di Paglia, che impersonava il generale Ludd.

- Le modalità organizzative adottate privilegiavano le soluzioni prettamente politiche. Ogni qual volta prendevano il sopravvento gli espedienti organizzativistici (in primis le derive paramilitari), ne denunciò presto il fiato corto.

Dino Erba, Milano, 18 marzo 2015.


[1] Bruno Astarian, Falsa attualità del luddismo. Note di lettura su Rivoluzione e classe operaia in Inghilterra di E. P. Thompson, «Il Lato Cattivo», 16 marzo 2015, http://illatocattivo.blogspot.it/ . Il saggio di Astarian è del 2005: tre anni prima il tema era stato trattato più brevemente anche in A proposito dell’opposizione luddista, Los Amigos de Ludd, marzo 2002, traduzione italiana in «Los Amigos de Ludd», a. II, n. 2, novembre 2003. La rivista ha avuto il merito di riproporre, attualizzandolo, il «luddismo».



da Lucio Manisco il 28 Gennaio 2016 dc
Considerazioni Inattuali n.85
Incubi sull’America. Incubi sull’Europa.

Donald Trump presidente USA.
Marine Le Pen president da la republique.


Catastrofismo apocalittico su prospettive realistiche.

Le elezioni più folli di tutta l’America? No, le più rischiose per il mondo intero chiunque le vinca il primo martedì di novembre. Elezioni da incubo per il contagio del modello americano che ha già dischiuso prospettive catastrofiche per un’Europa in pezzi. Una pavor nocturna per i pochi insonni che hanno seguito con il pessimismo della ragione e nella negazione sistemica dell’ottimismo dell’azione gli eventi dell’ultimo decennio. Il nightmare che potrà diventare realtà di qui a nove mesi negli USA: Donald Trump – D.T. per delirium tremens – nuovo inquilino della Casa Bianca (lo prevede con olimpico distacco Arianna Huffington intervistata da Lucia Annunziata). Un cauchemar per la Francia alla scadenza del mandato di Hollande: Marine Le Pen President de la Republique. L’incubo nostrano: Matteo Salvini presidente del Consiglio dopo un attacco terroristico ed un patto d’acciaio con Silvio Berlusconi in marcia pluriennale verso la presidenza della repubblica. E per aggiungere nero al nero la bestia trionfante del razzismo e antimigratorio che assesta il colpo di grazia al sogno europeo di Altiero Spinelli, l’esplosione di una più mastodontica bolla speculativa e del sistema bancario con il collasso di un’economia reale già schiacciata dall’offerta e non dalla domanda, la sconfitta più che meritata dei conati socialdemocratici nel vecchio continente ed infine l’ultima alternativa per le canaglie, chiamandole uno per cento o ipercapitalismo fuori controllo: guerre, altre guerre, nuove guerre in un pianeta sull’orlo del precipizio climatico.

L’Apocalisse di Giovanni e di altre baggianate bibliche? Un catastrofismo perverso e rinunciatario che esaspera all’ennesima potenza crisi reali ma superabili nel medio termine? Delusione senza fondo di un ottuagenario che ha creduto tutta la vita al socialismo e oggi vede solo la barbarie?

Ad eccezione del primo interrogativo, gli altri e le critiche che ne conseguono non ci hanno lasciato indifferenti ma rivestirebbero maggiore e probante validità se non fosse per i trentotto anni trascorsi da giornalista negli Stati Uniti d’America, due nel Parlamento italiano e dieci in quello europeo.

Forti di queste esperienze dedichiamo le poche note che seguono all’attualità elettorale della repubblica stellata, al suo popolo che abbiamo sempre amato – quello dalla Bible Belt in su, alle sue incolpevoli amnesie e al suo desiderio sempre frustrato di cambiar pagina.

Nel 2008 non condividemmo l’entusiasmo dei politologi e degli americanisti, soprattutto quelli nostrani, per l’elezione di Barack Obama, ne riconoscemmo l’intelligenza, la straordinaria eloquenza e la non meno straordinaria capacità gestuale e comunicativa, ma ne avvertimmo i limiti caratteriali, la sua riluttanza a sfidare lo establishment, la sua tendenza a cercare a qualsiasi costo il compromesso con un’opposizione repubblicana sempre più retrograda e reazionaria. Non lo scrivemmo, ma pensammo, esagerando, di trovarci di fronte ad una nuova versione dello Zio Tom. Sospendemmo con rammarico la nostra saltuaria collaborazione a il Manifesto, la cui direzione aveva garbatamente dissentito dai nostri giudizi critici. Continuammo così con queste Considerazioni Inattuali e con un’interpretazione controcorrente delle ragioni che avevano indotto una prima e una seconda volta l’elettorato a votare per un afro americano. Dopo dodici anni di “bushismo” – padre e figlio – di “conservatorismo compassionevole”, di guerre sbagliate, di povertà e disoccupazione, quell’elettorato voleva cambiare e per cambiare avrebbe votato per Gengis Khan. Gli otto anni di Obama non hanno registrato il cambiamento desiderato. Come abbiamo letto sul cartello di una manifestazione di protesta a Washington Pennsylvania Avenue è diventata la “Avenue dei sogni infranti”. Il presidente ha posto fine a due guerre, ha optato per i bombardamenti con i droni, ma contro i suoi intenti dichiarati ha aperto le porte ad altri conflitti con i “boots on the ground” contro l’ISIS in Medio Oriente e in Africa. Ha dato il via ad una parziale riforma sanitaria, per superare la recessione ha aumentato di migliaia di miliardi di dollari il debito pubblico a beneficio del sistema bancario, ha perduto la battaglia contro la diffusione delle armi da fuoco che miete 30.000 vittime l’anno, non ha aumentato i salari minimi dei lavoratori, ribattezzati ceto medio, con salari inferiori a quelli di una colf ad ore in Italia, ha ridotto impercettibilmente la disoccupazione che secondo dati statistici falsati sarebbe scesa a poco più del 5% mentre in realtà rimane superiore al 16%.

Fermiamoci qui. L’esasperazione degli elettori è arrivata alle stelle e gli eloquenti ravvedimenti di Obama degli ultimi mesi non hanno convinto nessuno.

Cosa determina oggi l’orientamento del cosiddetto uomo della strada? La paura. Paura per il suo futuro, paura di perdere, se ce l’ha, il posto di lavoro, di diventare sempre più precario, di non avere denaro sufficiente a mantenere una moglie e un figlio, di guadagnare sempre meno e lavorare di più, di non essere uscito da una recessione da lui pagata a caro prezzo e ad esclusivo beneficio dell’uno per centro di multimiliardari e dell’alta finanza, paura degli immigrati che si accontentano di salari più bassi del suo, se sono afroamericani paura della polizia che li ammazza. Nel subconscio e non solo nel subconscio collettivo, motivata e manifesta la paura atavica della povertà che gli antenati hanno trasmesso nel DNA di una nazione di migranti.

Il demagogo repubblicano Donald Trump cavalca questa paura, vuole “fare l’America grande”. Come? Deportando 11 milioni e mezzo di messicani “ladri, assassini e stupratori”, vomitando insulti da carrettiere sulle donne che “alzano la testa”, su avversari minus habens come Jeb Bush, Rubio o Cruz, impegnandosi se eletto ad impedire l’ingresso negli Stati Uniti a bianchi, neri o gialli di religione musulmana, ad abrogare tutte le leggi di Obama.

Vincerà tra quattro giorni le primarie dello Iowa e poi quelle del Massachusetts ed altre ancora. Come ha detto Arianna Huffington a Lucia Annunziata potrà battere a novembre la democratica Hillary Clinton.

Già, Hillary Clinton, una scelta infelice e deprimente per il partito di Obama e non per i motivi addotti dalla direttrice dello Huffington Post. A parte l’ambizione senza limiti, non ha, come ha scritto il politologo progressista Ted Rall, un messaggio convincente, una visione del futuro, un programma chiaro per l’elettorato, al di là dei vaneggiamenti liberal del secolo scorso. Come ha ammesso più volte il suo maestro e consigliere assiduo è l’ultra novantenne Henry Kissinger: aggiunge di suo un interventismo militare ad oltranza e l’esaltazione di Israele e di Netanyahu, come ha dimostrato da segretario di Stato. La sua campagna elettorale sapientemente pilotata dal marito Bill ha raccolto milioni di dollari di provenienza più o meno lecita. Spiace menzionarla per la sua volgarità, ma quanto mai calzante è la descrizione datane da Jane Fonda: “Un patriarca con vagina”.

La signora Clinton dovrà fare i conti nelle primarie con il “socialista di tipo svedese” Bernie Sanders dato favorito nello Iowa e nel Massachusetts: ha un programma di giustizia sociale e di lotta a Wall Street, moderato in politica estera e militare non è un pacifista, né un antimilitarista. Verrà tacciato di bolscevismo, comunismo e assoggettamento a Putin. Come ebbe a dirci il dirigente e primo commentatore politico della rete televisiva NBC John Chancellor ai tempi delle primarie Dukakis-Jackson, se un uomo di sinistra come il reverendo Jesse Jackson dovesse vincere le elezioni presidenziali avremmo un colpo di Stato negli Stati Uniti. Uno stesso destino attenderebbe Bernie Sanders?

Il popolo americano, di una repubblica cioè dagli istituti democratici dominata oggi da un sistema capitalistico ipertrofico non è immaturo, ma quando è in preda al panico soffre di amnesia cronica, e se si trova davanti a scelte inappetibili e pericolose può optare per la peggiore come fecero il popolo italiano negli anni venti e quello tedesco negli anni trenta.

Ecco perché siamo catastrofisti e apocalittici.


Lucio Manisco

www.luciomanisco.eu


Da Lucio Garofalo il 25 Gennaio 2016 dc (mancando il titolo, l'ho inventato io):
La globalizzazione capitalista

Karl Marx aveva intuito e teorizzato la globalizzazione capitalista oltre un secolo e mezzo fa. Oggi gli stessi economisti borghesi si sono rassegnati di fronte all'evidenza oggettiva e drammatica di un sistema economico che genera solo diseguaglianze crescenti tra ricchi e poveri nella popolazione. Non si tratta di un'anomalia, ma di una tendenza intrinseca e connaturata al capitalismo. Che piaccia o meno, poco importa. La realtà dimostra il fallimento di un assetto economico che rischia di condurre l'umanità verso la rovina e la catastrofe.

La razione di miseria imposta ai popoli in Europa (i PIGS) non basterà ad arrestare la caduta di rendimento (del saggio di profitto) del capitale finanziario, per cui serviranno altre manovre finanziarie che spingeranno verso una condizione crescente di insopportabilità dei sacrifici imposti ai lavoratori. Ormai il capitalismo non ha più nulla con cui tacitare la protesta sociale. Anzi, per sopravvivere è costretto ad estorcere ricchezze in dosi sempre maggiori. Quando il presidente Obama è costretto a raddoppiare i fondi dell’assistenza sociale per sovvenzionare, sottobanco, i supermercati dei distretti popolari statunitensi al fine di evitare drammatiche esplosioni sociali, quando in Europa si procede all’abolizione di ogni copertura di welfare e manco uno solo degli economisti borghesi è stato in grado di prospettare un modo per uscire dalla crisi, il processo di disfacimento totale del capitalismo ha una sua ragion d’essere: costituisce l’irrazionalità del capitalismo stesso rispetto alle ragioni dell’intera umanità.

Oggi la miseria obbligatoria imposta dalla BCE al fine di garantire il pagamento degli interessi del debito pubblico (greco, italiano, portoghese, spagnolo) al capitale finanziario internazionale, può valere una ripresa solo temporanea dei titoli di tali Stati (i PIGS). Più del 90% di questi titoli sono incettati dalle banche straniere (americane, tedesche, francesi) che esigono i pagamenti, pena il default: sono le più grandi banche d'affari mondiali, cui la BCE e le banche italiane, portoghesi, spagnole ecc., sono consociate. Di ripresa effettiva nemmeno l’ombra, anzi prosegue la liquidazione sistematica dell'economia reale, della produzione industriale e manifatturiera e del piccolo commercio. La crisi abbatte chi non è abbastanza forte da resisterle: si contano già migliaia di piccoli esercizi commerciali chiusi con relativo numero di disoccupati. Questa ecatombe forza il mercato in direzione dei grandi gruppi della distribuzione, le grandi catene di supermercati dove i prezzi sono stabiliti nell’ambito dei commerci internazionali. Ci avviamo verso un commercio con connotazioni autocratiche sempre più marcate, rispetto a cui i consumatori non dispongono di alcun mezzo di influenza e contrattazione.

Al momento i grandi centri commerciali mantengono i prezzi al di sotto di quelli del piccolo commercio, fa parte della strategia per liquidare quest’ultimo e la quantità di merci vendute assicura ai grandi gruppi margini più che soddisfacenti di profitto, poiché possono servirsi di lavoro precario a basso costo. Quando essi avranno imposto condizioni di monopolio, allora potranno esercitare tutta la loro forza per spremere i consumatori. Il piccolo commercio è una delle attività basilari della piccola borghesia urbana, le cui attuali condizioni di reddito non sono dissimili da quelle del proletariato. Ma la sua sopravvivenza dipende dall’evasione fiscale sistematica, da essa concepita come lotta di sopravvivenza nei confronti dello Stato e della concorrenza. L'odierna piccola borghesia urbana è solo un rimasuglio di ciò che era quando il fascismo la mobilitò contro il movimento operaio. Crollata l’illusione berlusconiana in cui essa si riconosceva, la piccola borghesia urbana si trova sul baratro della scomparsa come ceto sociale. Il capitale finanziario la sta sacrificando per acquisire il potere di monopolizzare i commerci ed utilizzarlo come forma di controllo e pressione sociale. È noto che i capitali dei grandi gruppi commerciali sono consociazioni internazionali gestite dalle banche d'affari.

È altresì evidente che per gli ultimi residui della piccola borghesia le prospettive future sono uno status di proletarizzazione, disoccupazione, precarietà. Per cui occorre fare attenzione, poiché è proprio dagli ambienti della piccola borghesia urbana che riemerge il pericolo del razzismo contro gli extracomunitari, dell'antisemitismo di ritorno, con implicazioni ideologico-politiche reazionarie che tali fenomeni comportano.


***

Cito testualmente un breve estratto di Karl Marx, che sembra scritto oggi, fresco di stampa: "Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato - dispotico, costituzionale o repubblicano che sia - imprime il suo marchio all'era capitalistica. L'unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è... il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s'indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale.". È un brano tratto da Il Capitale, Libro I, Capitolo 24, dedicato alla "cosiddetta accumulazione originaria". Il breve estratto, citato testualmente, si trova nel Paragrafo 6 del suddetto capitolo, paragrafo intitolato "Genesi del capitalista industriale".

Per chi volesse leggere interamente il capitolo 24, aggiungo opportunamente un link: http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_24.htm. Si tratta di un'analisi semplicemente geniale per come riesce ad intuire ed anticipare i tempi, spiegando la complessità meglio di sedicenti o presunti esperti contemporanei.


Inoltrata in e-mail dal Circolo Culturale Giordano Bruno di Milano l'8 Gennaio 2016 dc:
Checco Zalone, Quo vado?

Posto fisso: apologia o inutilità del lavoro?
«… il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. […] La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste».

Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, A cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1980, pp. 74-75.

Chi non rimpiange il posto fisso, scagli la prima pietra.  A parte gli imbecilli, sono pronti a scagliar la pietra solo i padroni e coloro che hanno introiettato l’ideologia del capitale. Sicuramente la sinistra cialtrona comprende queste tre tipologie umane. Non so quale sia quella predominante. Sicuramente i più pericolosi sono coloro che hanno introiettato l’ideologia del capitale. Costoro dovrebbero stare in manicomio, invece son liberi di sputar sentenze, esaltando lavoro & sacrifici. Degli altri. Invece chi il lavoro lo patisce e lo contesta rischia di finir, lui, in manicomio.

Quo vado è un film il cui umorismo attiene più alla satira che alla comicità, nonostante il finale scade in un buonismo che piacerà certo a Bergoglio. Il film gode giustamente di un grande successo, ma non tanto imprevedibile, poiché è stato diffuso in 1500 sale, che costituiscono oltre al 40% delle 3800 sale italiane[1]. C’è da dire che era in concorrenza con un remake più effetti speciali, come Star wars. Il risveglio della forza, e un deja vu di spie e guerra fredda, come Il ponte delle spie. In poche parole: nulla di nuovo sugli schermi d’Italia. Forse, il successo nasce perché il film mette giocondamente il dito nelle piaghe aperte della sinistra cialtrona, che oggi ci regala il Jobs Act di Renzi, le «riforme» del pubblico impiego Made in Madia e le oscenità dell’ex boss delle cooperative del lavoro nero, Giuliano Poletti. È tutta una sinistra cricca che, per anni, ha preparato il terreno per queste «riforme», inscenando un’insulsa quanto criminale apologia del lavoro e dei sacrifici.

Il mito del posto fisso

Con toni briosamente surreali, il film evoca la mitica era del posto fisso che in Italia ebbe il suo massimo dispiegamento negli anni Settanta del Novecento. Fu allora che il Welfare State visse il suo apogeo, per presto rifluire lentamente, ma inesorabilmente, sull’onda dell’incipiente crisi. A suonar la tromba del cambio di clima, fu quel Enrico Berlinguer dalla triste figura, capo dei nazionalcomunisti (il vecchio Pci). Ai primi segni di affanno economico, invece di difendere le recenti conquiste sociali, Berlinguer invitò i proletari a dare un esempio di «austerità francescana»[2], ovvero ad accettare i sacrifici imposti dal governo dei padroni. E fu seguito a ruota dal suo compare Luciano Lama, capo della Cgil (con la cosiddetta Linea dell’Eur, febbraio 1978[3]). L’invito dei capi coinvolse quella parte del popolo della sinistra più vicina alle ideologie stakanoviste (apologia del lavoro) e pauperiste del nazionalcomunismo. Un assortito poutpourri, con contorno di catto-comunisti e radical chic. Ma il cui nerbo era costituito soprattutto da funzionari del partito e del sindacato, con codazzo di studenti e insegnanti in cerca di un «posto fisso» in qualche apparato. Tutti costoro avevano in comune la poca affinità con il mondo del lavoro. Quello vero. Ma non per la greppia. Come dimostrano prebende e vitalizi che molti boss politici e sindacali si son ritagliati.

I lavoratori, quelli veri, invece, accolsero l’invito obtorto collo. Giusto allora, essi potevano tirare un sospiro di sollievo, dopo anni di lacrime e sangue versate per la gloria del padronato italiano. Per pochi danari e con molti rischi, si erano rotti la schiena nelle fabbriche e nei cantieri d’Italia, in cui molti di loro erano fluiti per sfuggire alle campagne, dove regnavano sfruttamento e oppressione, spesso conditi dalla miseria più nera. Ma la loro condizione restava comunque precaria, soggetta ai chiari di luna dei padroni, col rischio incombente di incidenti: nei primi anni Sessanta, gli anni del boom economico, i morti sul lavoro ufficiali (Inail) furono oltre 5mila, negli anni Settanta scesero a 3mila, oggi sono 1300. Di pari passo sono però cresciute le patologie da lavoro, ovvero, la morte differita[4].

La prima repubblica, non si scorda mai …

Per molti lavoratori, l’alternativa era l’emi-grazione, per i pochi che avevano qualche santo in paradiso e che sapevano leggere e scrivere, l’alternativa era il posto fisso, soprattutto nel pubblico impiego, ma anche nelle nascenti industrie di Stato (e parastato).

Ma nulla cadeva dal cielo. A salari e condizioni di lavoro migliori della media (ma non tanto), soprattutto nelle industrie di Stato, facevano riscontro diffusi e spesso umilianti rapporti clientelari, crudamente descritti da Paolo Villaggio nel suo Fantozzi.

Grazie al clientelismo, Democrazia cristiana e Pci cementarono la loro base elettorale. Questa era la Prima repubblica dei Moro, dei De Mita e dei Berlinguer. E solo con una gran faccia di tolla, i loro politicanti eredi han cercato e cercano di nascondere le vecchie porcherie, esaltando il lavoro e incolpando del «disastro» i fannulloni del pubblico impiego. E, in generale, tutti i lavoratori.

Come ho detto, il posto fisso non era il paradiso, ma rappresentava uno status che oggi rimpiangono tutti i sani di mente, come Checco Zalone. Ma nel film c’è un aspetto più soffuso ma ancor più importante: l’attuale inessenzialità del lavoro. Checco svolge attività del tutto inutili. Come milioni di Fantozzi e, aggiungo io, come milioni di Cipputi.

Lavoro? No grazie!

Che il lavoro sia una maledizione, dannosa e pericolosa, lo aveva subito detto la Bibbia. Lo dimostrò poi Paul Lafargue (genero di Karl Marx), nel suo Diritto all’ozio [più volte pubblicato] e, più recentemente, Alberto Tognola [Lavoro? No grazie! Ovvero, la vita è altrove, Edizioni La Baronata, Lugano, 2010]. Se in passato potevano esserci dubbi, oggi è assolutamente evidente che il lavoro è anche inessenziale, inutile.

La gran parte dei lavori, oltre a mezzi di distruzione di massa (armi), produce oggetti altrettanto pericolosi, come le automobili altamente inquinanti, o inutili gadget, come gli iPad, e merci di lusso destinate a pochi privilegiati. Un’altra parte assai consistente di lavori è sorta per rimediare ai danni che le industrie capitaliste causano nel corpo degli umani e nell’ambiente in cui essi vivono. Questi lavori ingigantiscono il settore farmaceutico e sanitario, nonché le attività rivolte alla «manutenzione» dell’ambiente, più che alla sua salvaguardia vera e propria. Alla fine, per provvedere alle vere necessità degli umani, resta solo una parte minima di lavori, che spesso è insufficiente.

Tutti questi lavori, siano essi utili o inutili, creano una gran massa di ricchezza (plusvalore) che finisce diritta diritta nelle tasche di una banda di sfruttatori e parassiti, che possono dominare solo grazie alla protezione di un crescente esercito di sbirri. Ci impongono un regime oppressivo, condito con martellanti campagne terroristiche che cercano di lavarci il cervello,  presentando il lavoro e la miseria come «mali minori». Ma per digerire il boccone avvelenato, non bastano tutte le lacrime della Fornero.

Di fronte a questa triste situazione, che tenderà a degenerare, è assolutamente demenziale chiedere lavoro e ancor più esaltarlo!

L’unica richiesta che si possa avanzare, per restare in vita, è un salario garantito, sganciato da ogni lavoro, anche socialmente utile. Un salario che assicuri a giovani e vecchi una vita dignitosa, come si suol dire. E se lor signori non sono in grado di farlo, allora è meglio man-darli fuori dai piedi, con le buone o con le cattive.

Dino Erba, Milano 8 gennaio 2016.

[1] Antonio Menna, Numeri record per “Quo vado”, il film di Zalone. Ma dietro c’è una strategia studiata a tavolino, «Italia Oggi, 4 gennaio 2016.

[2] Convegno con gli intellettuali vicini al Pci, Teatro Eliseo, Roma, 15 gennaio 1977. Vedi anche: Giulio Marcon, Berlinguer. L’austerità giusta, Jaca Book, Milano, 2014.

[3] Vedi: http://contromaelstrom.com/2011/07/01/la-politica-dei-sacrifici-e-la-svolta-delleur-1977-78/

[4] Vedi: www.webalice.it/seba.50/dati.doc/


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