Note critiche

sul trozkismo

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di Costanzo Preve

Prima parte

1. Queste note critiche sul trotzkismo non hanno alcuna ambizione di completezza o di organicità. Per questo ci vorrebbe ovviamente molto più spazio e soprattutto molta più documentazione, informazione e bibliografia critica. Queste note (insieme con un testo successivo e complementare dedicato ad alcune note critiche sul maoismo) dovrebbero servire per una discussione "senza rete". Con questa espressione (senza rete) indico una discussione che investa anche i "fondamenti ultimi" del trotzkismo, e non solo questioni di tipo tattico e congiunturale (come organizzarsi, praticare il cosiddetto "entrismo" oppure no, come stare o non stare nel movimento detto no-global, appoggiare Fausto Bertinotti oppure opporglisi, eccetera). Sono moderatamente pessimista sulla possibilità di avviare una vera discussione "senza rete", perchè tipico di tutte le organizzazioni a riferimento dottrinario e ad universalismo presupposto (ed il trotzkismo è un modello inarrivabile di corrente a riferimento dottrinario e ad universalismo presupposto) è appunto il rifiuto assoluto di investire i propri "fondamenti ultimi". Ma sono dell'opinione che valga la pena provarci sempre.

 

Ramon Mercader omicida di Trotzky

Ramón Mercader, l'assassino di Trotzky

2. I motivi che rendono opportuna un'apertura di una discussione critica sul trotzkismo sono oggi molti. Ne citerò però per brevità solamente tre, di cui il terzo ed ultimo è di gran lunga il più importante, ed a mio avviso il solo decisivo.

 

3. In primo luogo, vale la pena ritornare su Trotzky e sul trotzkismo per la semplice ragione che essi fanno parte integrante dell'esperienza storica del movimento operaio, socialista e comunista, ed è sempre importante non perderne del tutto la memoria storica. Non mi riferisco assolutamente a quegli adoratori della memoria storica che la coltivano per innaffiare continuamente la propria identità, appartenenza, spirito di gruppo e pertanto spirito di divisione (dagli altri, in particolare dagli avversari). Questi adoratori della memoria storica sono in genere nemici della innovazione teorica, ed io metto l'innovazione teorica sopra tutto il resto, in particolare in questo momento politico e storico. Gli adoratori della memoria storica sono in genere branditori di immaginette sacre, e credono che i ritratti di Lenin, Gramsci o Che Guevara possano sostituire la leniniana analisi concreta della situazione concreta. Anche se soggettivamente convinti di essere "marxisti" essi fanno parte di una sorta di club informale di collezionisti delle Figurine Panini. In loro si realizza l'infantilismo, stadio supremo della regressione senile del comunismo.

È dunque per un'altra ragione che raccomando la conoscenza e lo studio della storia del marxismo, del socialismo e del comunismo. Nel mio lavoro di professore di filosofia, più esattamente di storia della filosofia nei licei, mi è successo spesso di imbattermi in studenti inesperti ma geniali che scoprivano per conto loro le più comuni posizioni filosofiche, cosa niente affatto difficile, perchè le posizioni filosofiche fondamentali sono relativamente poco numerose. Tuttavia, ho sempre consigliato a questi geniali e precoci scopritori uno studio diretto dei sofisti e di Platone, di Aristotele e di Spinoza, di Kant e di Marx, eccetera, perchè vi avrebbero trovato le stesse posizioni che avanzavano confusamente, espresse però in modo mille volte più chiaro, profondo e sistematico. Nell'attuale situazione caratterizzata dall'interruzione dell'informazione storica e teorica fra le generazioni può capitare ad un giovane generoso ma confusionario di credere di "inventare" per la prima volta opinioni più o meno marxiste senza sapere che esse sono già state ampiamente elaborate in precedenza.

 

4. In secondo luogo, vale la pena ritornare su Trotzky e sul trotzkismo perchè questa corrente non solo è sopravvissuta al crollo implosivo del comunismo storico novecentesco (1917-1991), ma in un certo senso sembra oggi godere di una (a mio avviso apparente) seconda giovinezza. Basti pensare alle recenti elezioni presidenziali francesi del 2002 vinte da Chirac, in cui tra diversi candidati trotzkisti (Arlette Laguiller, Besancenot e Gluckstein) hanno preso insieme più del doppio dei voti del candidato comunista del PCF, esprimendo una radicalizzazione dell'opinione pubblica elettorale che è stata il principale fattore della sconfitta di Jospin, del riformismo neo-liberale e della cosiddetta "sinistra plurale". Personalmente, non spendo una sola lacrima per una forza socialdemocratica a parole e neoliberista nei fatti, vicina al sionismo massacratore e del tutto incapace di una vera opposizione diplomatica e militare all'impero americano di Clinton e di Bush. Mi ha fatto ridere (un riso amaro senza gioia) vederli entrare in fibrillazione come se il Le Pen 2002 fosse il Mussolini 1922 o lo Hitler 1933, ed andare a votare in massa Chirac come un gregge privo di orientamento o meglio come i lemming della favola che si buttano in mare seguendo il pifferaio. In ogni caso, tornando alla "seconda giovinezza" del trotzkismo del Duemila, questa seconda giovinezza non mi stupisce assolutamente, perchè in questa situazione da (apparente) "anno zero" e da nuovismo retorico che nasconde un continuismo sotterraneo (ma nuovismo e continuismo sono sempre dialetticamente uniti, perchè la retorica sulla novità è sempre solidale con la continuità silenziosa) è del tutto normale che giovani generosi ma privi di esperienza si gettino su ciò che utilizza pur sempre il chiaro linguaggio della contrapposizione all'imperialismo e della critica radicale al capitalismo.

 

5. Vi è però una terza ragione, di gran lunga la più importante, che mi spinge a sollevare il problema del trotzkismo in questa presente congiuntura storica ed ideologica. È stato recentemente pubblicato e discusso un libro molto cattivo sull'attuale situazione storica e politica internazionale (cfr. A. Negri - M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2002). Questo libro nega ogni importanza alla questione nazionale, e si oppone ferocemente a qualunque ipotesi di "secessione" statuale, nazionale, confederativa o federativa dall'imperialismo americano dominante. Secondo Negri ed il suo divulgatore accademico americano non bisogna opporsi all'inserimento in un unico spazio capitalistico mondiale globalizzato ed unificato, perchè solo all'interno di questo nuovo spazio omogeneo potrà svilupparsi un nuovo soggetto rivoluzionario immediatamente comunista, "le moltitudini", spinto da una sorta di flusso desiderante addirittura "teurgico", cioè costruttore di Dio (op. cit. p. 366).

Nella sua forma hard, negriano-delirante, non credo che questa nuova teoria teurgica potrà farsi strada. ma in una forma soft, negriano-moderata, essa ha tutte le chances per imporsi, perchè si innesta fortemente su di una tradizione soggettivistica (le moltitudini) ed irrazionalistica (i desideri costituenti e teurgici) che viene da molto lontano, ha resistito alle varie "dissoluzioni" degli anni Novanta del Novecento, e pertanto può dolcemente innestarsi su di un precedente "senso comune" diffuso nelle galassie movimentiste ed estremiste di vario tipo. Nessun allarme esagerato, ma anche nessuna sottovalutazione colpevole.

Ora, io so bene che questa concezione negriana nelle sue due versioni (hard delirante e soft moderata) non viene affatto dal trotzkismo, ma è una versione metamorfica e proteica del paradigma originario del cosiddetto Operaismo italiano, uno dei nostri contributi alla cultura mondiale (insieme con la pizza e gli stilisti). L'Operaismo è sempre lo stesso attore che si traveste velocemente da personaggi differenti (operaio-massa, operaio-sociale, general intellect, informatici, no profit, volontari, disobbedienti, moltitudini biopolitiche desideranti, eccetera). L'operaismo rifiuta la cosiddetta "legge del valore", propugna il passaggio diretto al comunismo del consumo oltre il cosiddetto socialismo del lavoro, nega il ruolo dei partiti politici di tipo socialista e comunista, eccetera. È bene dire subito che il trotzkismo si basa su di un paradigma teorico e politico ben diverso.

Il trotzkismo, infatti, sostiene l'esistenza di classi sociali antagonistiche e rifiuta l'adozione del concetto di moltitudini. Il trotzkismo ha una antropologia filosofica di tipo razionalistico-classico, e quindi non fa concessioni al "paradigma desiderante" francese (Deleuze, Guattari, Lacan, eccetera). Il trotzkismo ritiene che esista sempre l'imperialismo, più esattamente la concorrenza inter-imperialistica fra stati capitalistici, al di là della presente forza soverchiante ed asimmetrica delle forze armate americane, e non può quindi accettare la teoria della fine dell'imperialismo, sostenuta da Negri ed accettata con frettolosa incoscienza dai dilettanti della maggioranza del Partito della Rifondazione Comunista (PRC) nel 2002, in una situazione in cui le due minoranze politiche, sia togliattiana (Sorini) che trotzkista ortodossa (Ferrando) hanno invece saputo mostrare una maggiore serietà teorica e culturale.

Non voglio dunque mescolare in modo maligno ed irresponsabile l'operaismo ed il trotzkismo. Sia ben chiaro, e lo dico qui chiaro e forte, che l'operaismo è molto peggio del trotzkismo, da qualunque punto di vista lo si prenda. Apparentemente "nuovista", è di un "vecchismo" spaventoso. Nuovo nel carambolare pirotecnico di nuovi soggetti, nuovi comportamenti, eccetera, è vecchio nella proterva riproposizione di un ticket in cui il soggettivismo ideologico e politico si unisce con l'irrazionalismo filosofico e con il dilettantismo scientifico. Ma allora, dirà il lettore a questo punto, che cosa c'entra il povero trotzkismo?

C'entra, c'entra, purtroppo. E c'entra nel senso che il trotzkismo ha in comune con il negrismo una sorta di universalismo astratto ed aprioristico, che non a caso (ed in entrambi i casi) sostiene l'esistenza di una globalizzazione mondializzata, e rifiuta ogni legittimità alla questione nazionale come momento oggi assolutamente imprescindibile per la resistenza all'imperialismo (ed agli imperialismi). Quest'universalismo che definirei in qualche modo addizionale (perchè "addiziona" sempre al tradizionale soggetto storico operaio e proletario anche altri soggetti alla rinfusa, donne, ecologisti, giovani, pacifisti, indigeni, eccetera) addiziona sempre tutto, meno i popoli che vogliono giustamente costituirsi in stati indipendenti (baschi, eccetera), ed è sempre pronto a rilasciare vecchie etichette diffamatorie (piccolo-borghesi, fronti-popolari, eccetera) a qualunque realtà mondiale che sia in qualche modo interclassista. E siccome il 100% delle realtà politiche mondiali (attenzione il 100%, non certo il 99 o il 98%) è interclassista, e non potrebbe essere diversamente (lo è Cuba e la Cina, come la Palestina ed il Venezuela, il Sudafrica ed il Vietnam, eccetera), il trotzkismo sostiene sempre e solo sè stesso in modo autoreferenziale, come luogo onirico, virtuale e fantastico, perfetto e dunque sempre per principio incorrotto, unico luogo al mondo in cui non esiste nessun interclassismo ma solo perfetto rivoluzionarismo.

Seconda parte

6. Senza confondere metodologicamente il trotzkismo con il negrismo, intendo sostenere che nell'attuale congiuntura politica e teorica il primo è di fatto subalterno al secondo. Tesi indubbiamente provocatoria, ma purtroppo non assurda come può sembrare a prima vista. in questo contributo non ho certo lo spazio per discutere della figura storica di Trotzky (1879-1940), e neppure per analizzare la storia dell'URSS fra il 1917 ed il 1940. Toccherò invece solo tre punti. In primo luogo, i tre concetti fondamentali della dottrina trotzkista (rivoluzione permanente, impossibilità di costruzione del socialismo in un solo paese, teoria della burocrazia e della dinamica sociale dei paesi dell'ex-socialismo "realizzato"). In secondo luogo darò la mia personale interpretazione della natura del trotzkismo e della sua dialettica tragica, o meglio tragicomica (dottrinarismo a priori ed empirismo a posteriori, unicità della dottrina e frammentazione inevitabile dei gruppi, universalismo astratto e particolarismo concreto, eccetera). In terzo luogo farò alcune ipotesi sul trotzkismo politico oggi. Prima, però, voglio fare ancora una premessa su Stalin, per cercare di ridurre al minimo gli equivoci e le malevolenze.

 

7. Una premessa sulla questione di Stalin è necessaria, perchè ogni discussione sul trotzkismo rischia di non partire neppure, e di essere avvelenata a priori, se si pensa che il critico del trotzkismo voglia "giustificare" Stalin e lo stalinismo, schierarsi al suo fianco, avallare i suoi processi ed i suoi gulag, eccetera. Non è certo il mio caso. Io capisco benissimo che negli anni Venti e Trenta la questione della scelta "secca" fra Stalin e Trotzky fosse una scelta reale ed ineludibile per i comunisti di quelle generazioni, ma oggi la retrodatazione simbolica (e fantasmatica) della dicotomia può solo creare un universo parallelo e virtuale di disputanti teologici su contenziosi un tempo sanguinanti ma oggi del tutto esauriti. Si accomodi che vuole, ma io per principio non mi lascio imprigionare oggi nella dicotomia Stalin/Trotzky. Lo facciano gli stalinisti, lo facciano i trotzkisti, ma io non lo farò. Per rispetto verso il lettore, che ha il diritto di conoscere le premesse di valore di chi scrive (unica possibile "oggettività" per il saggista, che non dispone di un laboratorio come un fisico, un chimico o un biologo), dirò egualmente che cosa penso della questione di Stalin.

In estrema approssimazione, la questione di Stalin può essere affrontata sulla base di tre approcci distinti, a volte interconnessi, ma in cui ce n'è sempre uno dominante e gli altri due dominati: l'approccio realistico di tipo politico-diplomatico-militare, l'approccio etico ed infine l'approccio strutturale in senso marxista. Il mio approccio è il terzo. L'approccio della stragrande maggioranza dei "marxisti" che conosco è sempre sistematicamente o il primo (in maggioranza) o il secondo (in minoranza). Vediamo.

Il primo approccio, ispirato alla tradizione della Realpolitik (da Machiavelli a Hobbes, da Bismarck a Churchill, eccetera), si basa sulla tradizionale separazione metodologica di Machiavelli fra politica e morale, e giudica Stalin (dal 1924 al 1953) sulla base del contesto storico, geografico, geopolitico, economico, diplomatico e soprattutto strategico-militare. Il contesto è quello della minaccia militare della Germania e del Giappone fino al 1945, e poi della minaccia atomica americana dopo il 1945. Sulla base di questo approccio, di cui non nego assolutamente la legittimità e la pertinenza, la maggior parte delle scelte di Stalin (non tutte) appare effettivamente non solo comprensibile, ma anche giustificata. La scelta della cosiddetta "industrializzazione" del 1929 appare logica, in un'ottica di confronto economico e militare con il capitalismo e poi con il nazismo. Lo stesso patto con Hitler del 1939, ingiustificabile sul piano etico ed ideologico, è invece del tutto comprensibile sul piano geografico, geopolitico e militare. La trasformazione violenta delle "repubbliche popolari" (1945-1949) in veri e propri stati satelliti sovietizzati, un vero scandalo sul piano dell'etica e della politica marxiste, appare comprensibile nell'ottica della guerra fredda (storicamente iniziata dagli americani e da Churchill, come gran parte della storiografia anche occidentale ha stabilito) e del ricatto atomico (cfr. Filippo Gaja, Il secolo corto, Maquis editore, Milano 1994). Se la rottura con Tito (1948) appare chiaramente un errore di arroganza staliniana, gli stessi processi (1936-1938) diventano in questa ottica solo un "errore", e non un crimine, perchè questo approccio realistico-militare espelle per principio ogni considerazione etica dal suo apparato teorico di valutazione.

Il secondo approccio, che è il contrario dialettico polare del primo, ed è perciò altrettanto unilaterale (anche se più simpatico) è quello ispirato alla grande tradizione etica ed umanistica del marxismo, per la quale i realisti hobbesiani e machiavellici hanno sempre e solo un sorrisino di scherno o un sospiro di compassione. Alla luce di questo approccio Stalin appare un dittatore cinico e spietato, moralmente del tutto ingiustificabile, massacratore di vecchi rivoluzionari (Bucharin, Zinoviev, fino a Trotzky in Mesico nel 1940), un despota totalitario da studiare addirittura sulla base di una psicologia paranoica, eccetera. A mio avviso questo approccio, di cui peraltro non contesto affatto la legittimità, è solo la coscienza infelice del primo, il suo rovescio inevitabile, il suo pentimento immanente, il suo grido di dolore ineliminabile, dato che l'uomo è un animale simbolico che non può sottrarsi al giudizio etico neppure quando lo proclama cinicamente con un sorrisino nichilistico di disincanto.

Il terzo approccio, che è il mio, mette fra parentesi (attenzione, non elimina, ma mette solo provvisoriamente fra parentesi) i due precedenti approcci di tipo segretamente polare-complementare (l'approccio realistico e l'approccio moralistico), e si chiede invece un'altra cosa. Si chiede quale tipo di formazione economico-sociale (in senso leniniano) e quale configurazione di rapporti sociali di produzione (in senso marxiano) Stalin ed il modello staliniano di socialismo a partire dal 1929 hanno costruito. È questa, ovviamente, la domanda che si sarebbe posto Marx, e che dovrebbe porsi ogni marxista, se non avesse messo Bismarck (e la realpolitik) e Kant (ed il giudizio morale) al posto di Marx, che così diventa solo più un'immaginetta religiosa identitaria di appartenenza di partito o di setta. Sulla base di questa domanda, e sapendo bene che saper porre le domande giuste è ancora più importante delle risposte che poi si danno, destinate inevitabilmente ad essere modificate ad ogni generazione, è possibile a mio avviso impostare correttamente, anche se certo non risolvere definitivamente (avverbio sconosciuto alla ricerca filosofica e scientifica) la questione di Stalin.

A mio avviso (e qui mi ispiro soprattutto a Paul Sweezy e Charles Bettelheim, ma non solo) la formazione economico-sociale specifica ed inedita costruita sulla base del modello staliniano di socialismo non era assolutamente di "transizione" (perchè non "transitava" per nulla verso il comunismo), ma era una formazione economico-sociale inedita ed anomala di classe, in cui la vecchia borghesia privatistica era sostituita da una nuova borghesia burocratica di stato. Come si vede, la mia opinione è simile a quella del maoismo degli anni Sessanta e Settanta, non a quella del trotzkismo, che cercherò di segnalare e criticare fra qualche paragrafo. Il carattere classistico ed inedito, più esattamente socialmente classistico e storicamente inedito, della formazione economico-sociale staliniana, che a mio avviso può essere definita sia con l'attributo di socialismo realmente esistente (SRE) sia di comunismo storico novecentesco (CSN), spiega anche la dinamica essenziale della dissoluzione successiva di Gorbaciov e di Eltsin (1985-1992).

Non mi illudo certamente che questo terzo approccio, l'unico scientifico in senso marxiano, passi presso una tribù ideologica ed identitaria come quella dei marxisti rimasti. Chi scrive è molto meno ingenuo di come sembra, e conosce bene i suoi polli. Ma spero almeno di poter cominciare ad esaminare criticamente il trotzkismo senza che si alzino alte grida di accusa di voler "difendere" lo stalinismo, eccetera. Non è il mio caso. I polemisti frettolosi sono avvertiti.

 

8. Finito l'antipasto, passiamo finalmente al primo piatto. Ed il primo piatto sta in ciò, che prenderò in esame successivamente tre capisaldi della tradizione trotzkista (la rivoluzione permanente, l'impossibilità di costruzione del socialismo in un solo paese, ed infine la rivoluzione politica contro la burocrazia dello stato operaio degenerato) criticandoli tutti e tre. Criticherò il primo sulla base di una categoria teorica di Hegel, e gli ultimi due sulla base di due categorie teoriche di Marx. Mi auguro di essere chiaro e comprensibile. Cominciamo.

 

9. In estrema sintesi, e per mettere subito giù le carte davanti al lettore, ritengo che da un punto di vista teorico il pensiero di Trotzky sia un pensiero estremamente tradizionale e "classico", un pensiero completamente interno al modello del marxismo della Seconda Internazionale, di cui rappresenta, insieme con altri due importanti modelli (Rosa Luxemburg e Georges Sorel), una variante di sinistra. Variante di sinistra, certo, ma sempre variante interna. Questo appare chiaro se si esaminano in modo spregiudicato ed onesto le sue colonne portanti (centralità sociale e politica pressochè esclusiva della classe operaia e proletaria, sottovalutazione sistematica della classe contadina come classe "piccolo-borghese" e residuale, centralità della teoria dello sviluppo delle forze produttive, teoria dell'impossibilità di costruzione del socialismo in condizioni di basso sviluppo delle forze produttive stesse, limitazione delle classi a due soltanto con esclusione della possibile natura di classe sociale autonoma, nuova ed inedita della burocrazia, eccetera). In proposito, sulla base di questo giudizio di fondo, voglio però fare subito due rilievi aggiuntivi secondari.

In primo luogo, il fatto che il marxismo teorico di Trotzky sia al 100% interno al paradigma unico della Seconda Internazionale (e parlo di paradigma unico anche se diviso in tre ali, a destra Bernstein, al centro Kautsky ed a sinistra Rosa Luxemburg) non vuol dire che dal 1917 al 1940 Trotzky non abbia preso spesso posizioni corrette ed egregie. A parte la sua autobiografia, ho letto alcune biografie politiche di Trotzky, in particolare il vecchio Deutscher ed il più recente Brouè, e sono del tutto convinto della grandezza politica e morale di Trotzky. Egli fece bene ad aderire alla rivoluzione d'ottobre del 1917. Seppe condurre con grande capacità ed intelligenza la guerra civile fra Rossi e Bianchi fra il 1918 ed il 1921. Previde con grande intelligenza gli avvenimenti cinesi del 1927 ed il massacro dei comunisti nelle città. Aveva perfettamente ragione nell'auspicare un fronte unito anti-hitleriano in Germania fra il 1931 ed il 1933. Seppe dare prova di grande moralità rivoluzionaria fra il 1938 ed il 1940 quando contro i suoi stessi seguaci sostenne la linea della difesa dell'URSS nonostante i grandi processi sterminatori di Stalin. Insomma, da qualunque parte lo consideriamo, e nonostante i suoi errori (ma chi non si impegna non rischia e non sbaglia mai, solo chi si sporca le mani lo fa), Trotzky appare una tragica ma lucida figura di rivoluzionario marxista classico.

In secondo luogo, credo che l'odierna sopravvivenza (unita ad una parziale rivitalizzazione) del trotzkismo sia proprio dovuta alla lunga durata delle sue radici teoriche. Risalendo in modo pressochè integrale alla Seconda Internazionale e quindi ad un momento storico anteriore al 1917, il trotzkismo viene così di fatto simbolicamente "innocentizzato" di tutta la catastrofe dissolutoria del comunismo storico novecentesco a dominante staliniana e post-staliniana (1917-1991). Così come Benedetto Croce poteva dire nel 1943 la frase "ieri dicevamo", aprendo una parentesi storica e simbolica fra il 1922 ed il 1943, nello stesso modo il trotzkista può dire "avevamo sempre detto e siamo stati confermati", aprendo una parentesi storica e simbolica fra il 1917 ed il 1991. Ed è infatti vero che il trotzkismo, non avendo mai avuto il minimo potere politico dopo il 1924 ed essendo anzi stato sempre perseguitato, massacrato e piccozzato, non porta alcuna responsabilità per la dinamica della vergognosa implosione del comunismo storico novecentesco. Esso può così rappresentarsi come la coscienza critica della rivoluzione, il grillo parlante del movimento operaio. Come il bordighismo, esso presenta aspetti del tutto astorici. Ma a differenza del bordighismo esso si è sempre sporcato le mani con la tattica. Questo lo fa diventare meno rigoroso teoricamente del bordighismo, ma anche più interessante e più fecondo storicamente. Teoricamente, gran parte del trotzkismo europeo è una forma di bordighismo indebolito, eclettico e poco rigoroso. Ma politicamente il trotzkismo fa parte integrante della storia del marxismo politico degli ultimi settant'anni.

Terza parte

10. Elaborata a partire del 1905, ed avanzata originariamente da Parvus (Helphand), la teoria della rivoluzione permanente è una teoria completamente interna all'orizzonte delle correnti di sinistra della Seconda Internazionale, insieme con la teoria della spontaneità rivoluzionaria delle masse di Rosa Luxemburg e la teoria dello sciopero generale rivoluzionario di Georges Sorel. Essa afferma che una rivoluzione non deve fermarsi mai fino al suo approdo al socialismo, e che tutte le rivendicazioni parziali in favore di altre classi non proletarie (piccola borghesia, contadini, eccetera) sono sempre e solo provvisorie. Le alleanze di classe, non escluse a priori, sono sempre e solo tattiche e non strategiche. La sola classe rivoluzionaria è e resta il proletariato, inteso come somma di proletariato operaio ed in subordine di proletariato agricolo.

 

11. Analizzata e giudicata alla luce della dialettica di Hegel e di Marx, la teoria della rivoluzione permanente cade sotto la critica alla cosiddetta "furia del dileguare" ed al "cattivo infinito", quello che si spinge sempre avanti e non si "determina" mai. La "determinazione" (Bestimmung) è infatti una categoria insieme logica, ontologica e dialettica che rappresenta la sola possibilità di risolvere l'infinito nel finito. E questa risoluzione dell'infinito nel finito, lo spiega bene Hegel criticando il punto di vista di Kant, è anche la premessa della dialettica di Marx.

La "furia del dileguare" è un'espressione che Hegel usa criticando Rousseau, in cui Hegel sostiene che Rousseau pone l'obiettivo ultimo della sua società naturale e virtuosa senza alcuna mediazione intermedia, e saltando le mediazioni intermedie finisce con l'abbracciare solo il vuoto sociale astratto. Di qui, secondo Hegel, il moralismo rivoluzionario (in buona fede soggettiva ma con esiti oggettivi catastrofici) di Massimiliano Robespierre e dei giacobini francesi del 1792-94. Marx accetta sostanzialmente questa doppia critica di Hegel a Rousseau (la furia del dileguare) ed a Kant (il cattivo infinito), e lo fa perchè tutta la sua teoria della storia è discontinua e non continua, in quanto fondata sulla "determinazione" (Bestimmung).

Da un punto di vista dialettico, la teoria di Trotzky sulla rivoluzione permanente è solo il contrario della teoria di Bernstein sul riformismo socialdemocratico progressivo. Ciò può sembrare a prima vista strano, ma solo a chi non possiede un punto di vista dialettico. Secondo Bernstein bisogna abbandonare ogni utopismo rivoluzionario di tipo "crollistico", residuo del romanticismo rivoluzionario giovanile di Marx e di Engels originatosi nel clima del 1848, per approdare ad un convinto riformismo progressivo in cui "il fine è nulla ed il movimento è tutto". La teoria della rivoluzione permanente di Trotzky rovescia semplicemente di 180° questo punto di vista di Bernstein, in un'ottica in cui "il movimento è nulla, ed il fine è tutto", e per cui i vari momenti temporali successivi del movimento sono sempre privi per sè di valore finchè non si giunge all'unico momento veramente significativo, la fine del processo della rivoluzione permanente e l'ottenimento del socialismo.

Bernstei e Trotzky sono dunque per me una coppia polare non dialettica, che si muove all'interno dello stesso modello teorico, kantiano e non hegeliano. Non è neppure tanto difficile capirlo.

 

12. Elaborata a partire dal 1924, e consolidata dopo il 1929 e la rottura staliniana con la NEP e con l'economia mista che durava dal 1921 (ed aveva però causato la cosiddetta "crisi delle forbici" fra agricoltura ed industria), la teoria di Trotzky dell'impossibilità di costruire il socialismo in un solo paese diventò presto uno dei fondamenti del trotzkismo. La ragione per cui la costruzione del socialismo può solo essere un fenomeno mondiale e non russo è individuata fondamentalmente nel fatto che la Russia è un paese arretrato, in un paese arretrato lo sviluppo delle forze produttive è scarso e comunque insufficiente, lo scarso sviluppo delle forze produttive provoca penuria di beni e di servizi, in una situazione di penuria di beni e di servizi si forma una coda di persone in attesa, per controllare questa coda ci vuole necessariamente un poliziotto-burocrate, ed il poliziotto-burocrate si serve per primo dei pochi beni e servizi disponibili approfittando del suo monopolio della forza.

Ho riassunto qui in forma schematica questa teoria, ma spero di non averla falsificata nel merito. Non credo. Questa teoria è di una semplicità disarmante, e proprio questa semplicità estrema è stata la ragione del suo relativo successo.

 

13. Esaminata dal punto di vista dialettico di Hegel e di Marx , questa teoria si colloca al centro del paradigma classico del marxismo della Seconda Internazionale, caratterizzato dalla decisività delle forze produttive. A suo tempo, fu la grande obiezione dei menscevichi di Martov a Lenin. La rivoluzione socialista non può e non deve essere fatta in Russia, perchè è prematura, e la Russia non ha uno sviluppo delle forze produttive sufficienti, da cui si avrà inevitabilmente penuria economica e dispotismo burocratico in politica. Non è affatto un'obiezione scema. È un'obiezione serissima, che infatti Lenin prendeva molto sul serio. Ma Lenin passava a lato di questa obiezione, sostenendo che quella russa era stata solo la rottura dell'anello più debole della catena mondiale imperialistica, che avrebbe dato luogo molto presto a delle rivoluzioni socialiste nei paesi capitalistici a sviluppo economico più avanzato.

Come è noto questo non avvenne. E questo non avvenne non certo perchè la burocrazia russa non voleva queste rivoluzioni, ma perchè il modello leniniano non era evidentemente "universalistico" come si pensava in perfetta buona fede. Esso si dimostrò del tutto inapplicabile nei paesi capitalistici, e la storiografia trotzkista fa molto male a coltivare l'assurdo mito per cui le rivoluzioni avrebbero avuto grandi possibilità di successo se la burocrazia staliniana non le avesse sabotate (Spagna 1936, Grecia 1944, Italia 1945, e via farneticando). Nella Spagna 1936, nella Grecia 1944, e soprattutto nell'Italia 1945 le rivoluzioni socialiste, reali o potenziali, furono sconfitte o non ebbero neppure luogo perchè erano deboli (in alcuni casi per ragioni sociali, in altre per ragioni geopolitiche e militari), non perchè furono boicottate e sabotate da perfidi agenti con il colbacco inviati dal Cremlino. Dove c'erano le condizioni militari e geopolitiche (Cina e Vietnam, Ungheria e Cecoslovacchia, eccetera) il Cremlino in alcuni casi, forze autonome in altri, realizzarono una vera e propria "rivoluzione permanente", non fermandosi ad uno stadio intermedio di cosiddetta "nuova democrazia" o "democrazia progressiva", ma arrivando fino in fondo alla loro società socialista (ovviamente staliniana).

 

14. La demonizzazione di Stalin contro Trotzky è così assolutamente simmetrica alla demonizzazione fatta da Trotzky contro Stalin. Si tratta di un'unica demonologia a due teste, come l'aquila imperiale bizantina e russa, in cui il Malvagio Avversario Demonizzato (MAD) è responsabile di tutto il male del mondo, anche di quello di cui con piena evidenza non è responsabile. Così, da un lato, Stalin è responsabile di tutte le rivoluzioni date per possibili ma non effettuate, e Trotzky è responsabile di una alleanza "oggettiva" con il fascismo e con la borghesia. Non ho nessuna intenzione di fare dell'umorismo macabro su questa doppia demonizzazione storica, che causò la morte di moltissimi sinceri rivoluzionari, ma solo di segnalare la necessità di chiudere questo contenzioso, che è in realtà già chiuso almeno dal 1956 e lo è in modo scandalosamente evidente dal 1991. Le polemiche fra tifosi retroattivi di Stalin e tifosi retroattivi di Trotzky, che giunsero come tutti i tifosi a sprangarsi nella nebbiosa Milano dei primi anni Settanta, sono per me manifestazioni di surrealismo puro e di teatro dell'assurdo incondizionatamente superiori alle migliori prestazioni di Jonesco e di Beckett.

 

15. Per tornare alla questione dell'impossibilità di costruzione del socialismo in un solo paese (o gruppo di paesi) voglio ancora segnalare al lettore una questione teorica di grande importanza, che in Italia a suo tempo Aldo Natoli seppe affrontare con molta intelligenza.

In estrema sintesi, la questione della possibilità o meno di costruire il cosiddetto "socialismo" è teoricamente insensata, e pertanto non può essere risolta, almeno alla luce della concezione autentica di Marx. In Marx non esiste il socialismo separato dal comunismo, ma il cosiddetto "socialismo" (termine in Marx del tutto inesistente, e poi coniato, appiccicato e retrodatato solo dopo) è solo una sorta di primo momento ancora immaturo del comunismo, da cui non si può separare. Per Marx (e lascio qui in sospeso se sia giusto oppure no, realistico oppure no) esiste solo un modo di produzione comunista, non esiste un modo di produzione socialista. Esso non esiste e non può esistere, perchè il cosiddetto "socialismo" è solo una formulazione ambigua ed inesatta per connotare una formazione economico-sociale di transizione. È vero che nel 1875 Marx, nella sua Critica al programma di Gotha, distingue fra il criterio della retribuzione secondo il lavoro ed il criterio della appropriazione secondo i bisogni, ma è anche vero che non si sogna neppure di chiamare "socialismo" il primo stadio e "comunismo" il secondo. Questo è quello che tutti credono di sapere, ma che è filologicamente e teoricamente del tutto infondato ed inattendibile. La distinzione fra socialismo e comunismo è posteriore a Marx.

Con questo, non intendo dire che Marx abbia ragione al 100%. Personalmente non lo credo neppure. Ritengo anzi che in Marx ci siano elementi di utopismo e di vero e proprio mito della trasparenza assoluta dei rapporti sociali (e vedi in proposito il libro oggi dimenticato, ma sempre ottimo, di D. Goldoni, Il mito della trasparenza. Saggi su Marx, Unicopli, Milano 1982). Ma questa è un'altra storia, ed un'altra partita teorica da aprire, quella sulla natura della nozione di comunismo in Marx (e si veda anche, assolutamente decisiva, la sesta parte del libro di B. Chavance, Marx et le capitalisme, Nathan, Paris 1996). Certo, so perfettamente che i comunisti hanno paura di affrontare in modo spregiudicato la questione della nozione di comunismo in Marx, esattamente come i cristiani hanno paura di affrontare la questione della resurrezione fisica di Gesù. Mistero Pasquale e Mistero del Comunismo sono due astrazioni interamente sacralizzate, che è difficile porre razionalmente ai credenti. Ma per quanto riguarda il trotzkismo è possibile ribadire che il problema della costruzione o meno del socialismo in quanto tale è marxianamente insensato. E questo alla luce non del mio arbitrio ermeneutico, ma della stessa filologia marxiana accertabile.

Quarta parte

16. La teoria della degenerazione burocratica dell'Unione Sovietica sotto Stalin, il capo carismatico dei burocrati, è un pezzo forte della teoria del trotzkismo. Trotzky ragiona sistematicamente sulla base dell'analogia storica (metodo ingannevole per eccellenza), ed assimila i bolscevichi leninisti ai giacobini francesi, e gli staliniani ai termidoriani. Questa analogia è assolutamente fuorviante, perchè la concettualizzazione di contraddizioni del tutto nuove e storicamente inedite costruita mediante un'operazione analogica (i giacobini, i termidoriani, il bonapartismo, eccetera) ha di fatto un effetto di oscuramento sulla dinamica concreta dei fatti contemporanei. Nello stesso tempo questa analogia ingannatoria è del tutto obbligata, se si ragiona in termini di soggettivizzazione di classi (borghesia, proletariato, nobiltà, eccetera) anzichè sulla ben più corretta (ma difficile) base della ricostruzione anonima ed impersonale di funzioni sociali oggettive, e non di "maschere" soggettive.

La degenerazione sociale e politica dell'URSS dopo il 1924 è ricondotta da Trotzky alla formazione di un nuovo ceto parassitario (la burocrazia, appunto), creatosi a causa del basso livello delle forze produttive, che ha trovato in Stalin il suo capo carismatico ed il suo centro politico unificatore. Questa burocrazia è un ceto e non una classe, e pertanto non si può parlare di una vera "restaurazione del capitalismo", ma solo di un pericolo di possibile restaurazione. Contro questo nuovo ceto parassitario, che fa dell'URSS e dei paesi a modello sociale similare degli "stati operai degenerati" è necessaria una rivoluzione politica. Uno dei presupposti di questa rivoluzione politica è il ristabilimento di un partito di tipo leninista con possibilità di costituzione garantita di correnti politiche diverse al suo interno (ma non però di un pluralismo politico esterno, che i trotzkisti vedono come qualcosa di borghese e non di proletario). Insomma, pluralismo politico, ma solo pluralismo di tendenze all'interno del solo diritto di organizzazione politica per il proletariato e non per la borghesia.

 

17. Il primo a studiare sistematicamente i fenomeni di burocratizzazione all'interno dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale fu Roberto Michels, ed a distanza di un secolo le sue analisi sono ancora talmente fresche che sembrano scritte solo ieri, e sembra di vedere schizzare fuori dalle sue pagine Massimo D'Alema, Piero Fassino, Armando Cossutta, Fausto Bertinotti, eccetera. Alle spalle di Michels, tuttavia, ci stanno i ben più solidi presupposti sociali di Max Weber, da sempre convinto che il socialismo come autogoverno politico ed autogestione economica integrali fosse impossibile, e che pertanto i socialisti potessero certamente andare al governo, ma il socialismo non avrebbe mai potuto andare al potere. Anche il fatto che lo stesso marxismo, nella versione datagli da Kautsky, fosse solo una sapiente copertura ideologica di legittimazione "scientifica" dell'opportunismo burocratico era già perfettamente noto (cfr. E. Matthias, Kautsky e il kautskismo, De Donato, Bari 1971).

Alfred Loisy scrisse in quegli anni che "...Gesù aveva annunciato il Regno di Dio, ed al suo posto era venuta la Chiesa". Una formulazione assolutamente impeccabile. Una formulazione che Kautsky aveva ripreso nella sua importante opera sulle origini del Cristianesimo (cfr. K. Kautsky, L'origine del cristianesimo, Samonà e Savelli, Roma 1970, p. 414), chiedendosi in modo profetico se "...il comunismo non avrebbe sviluppato la stessa dialettica del cristianesimo, mutandosi anch'esso in un nuovo organismo di sfruttamento e di dominio". A questa domanda di esorcizzazione preventiva, posta nel 1908, Kautsky rispondeva in modo rassicurante che questo non sarebbe successo, a causa del famoso sviluppo benefico delle forze produttive (pp. 420-426).

Come si vede, la teoria della burocrazia di Trotzky è assolutamente interna ai parametri di Loisy, di Michels e di Kautsky. La sua "applicazione" allo stalinismo è dunque un fenomeno teorico derivato, non primario.

 

18. In modo assolutamente provocatorio, e solo apparentemente idiota, vorrei sostenere che la burocrazia nel senso di Trotzky semplicemente non esiste. Spieghiamoci meglio, in modo che non sembri che abbia battuto la testa contro uno stipite ed abbia del tutto perso il senno. È evidente che in senso sociologico e politico, e cioè di aggregato sociologico e di ceto politico professionale la burocrazia esiste, eccome!! Essa si riproduce mediante la riproduzione di gruppi sociali legati alla gestione del partito e dello stato, e comprende uno strato di persone che traggono i propri privilegi non dalla proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione giuridicamente trasmissibile per testamento, ma dal possesso stabile e rinnovato della disposizione concreta dell'uso di questi mezzi di produzione attraverso i meccanismi del monopolio politico, della pianificazione economica e dell'ideologia ateo-religiosa. In questo senso, è chiaro che la burocrazia esiste.

L'esistenza empirico-sociologica di questa burocrazia non può essere messa seriamente in discussione. Si tratta di un fatto innegabile da cui partire. Il problema nasce sulla base della precisa definizione della sua natura di classe, ed allora il problema della burocrazia diventa solo un caso particolare della nostra concezione di classe sociale (consiglio qui, per cominciare, A. Illuminati, Sociologia e classi sociali, Einaudi, Torino 1967; L. Tomasetta, Stratificazione e classi sociali. Sociologia e marxismo, Il Saggiatore, Milano 1974; N. Poulantzas, Classi sociali e capitalismo oggi, Etas Libri, Milano 1975).

Ma, allora, perchè insisto nel dire che la burocrazia non esiste? Semplice. Perchè la burocrazia è certamente una categoria empirico-sociologica, politico-parassitaria, eccetera, ma non è una categoria storica e teorica, perchè in Trotzky sta al posto di un'altra cosa, da Trotzky presupposta, data per scontata e mai dimostrata, e cioè la capacità strutturale inter-modale della classe operaia e proletaria di riuscire a mettere in atto l'autogoverno politico e l'autogestione economica. Del tutto ignaro che per Marx il soggetto rivoluzionario non è affatto la classe operaia e proletaria, ma semmai il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, espressione sociale politicamente organizzabile del cosiddetto general intellect, Trotzky è costretto a costruirsi un fattore negativo demonologico, la burocrazia appunto, per spiegarsi e spiegare ai suoi seguaci il perchè la classe operaia e proletaria non riesce mai ad autogovernarsi politicamente e ad autogestirsi economicamente. E se non potesse strutturalmente farlo senza delegare tutto questo ad un ceto separato, che a questo punto non la "espropria", ma semplicemente supplisce alla sua macroscopica incapacità storica e sociale?

Un simile dubbio sarebbe diabolico per il marxista ortodosso e per il buon trotzkista medio. Egli deve dunque scacciarlo, e ricorrere alla burocrazia, esattamente come il credente deve ricorrere al Peccato Originale per potersi spiegare il prevalere del male nel mondo. Si tratta di analoghe rimozioni religiose, che i gruppetti fondamentalisti marxisti hanno in comune con i gruppetti fondamentalisti come i Testimoni di Geova. La mia preferenza per i trotzkisti è comunque dovuta al loro razionalismo illuministico, che li porta ad accettare correttamente le trasfusioni del sangue. Ma a parte questo pur importante particolare, l'analogia è purtroppo impressionante.

Secondo l'impostazione del grande epistemologo americano Kuhn, che io qui adotto apertamente, la teoria trotzkista della burocrazia (così come la teoria fisica dell'etere e quella chimica del flogisto) rappresenta un classico tentativo di affrontare una crisi scientifica e nello stesso tempo di impedire una vera rivoluzione scientifica attraverso degli accorgimenti che Kuhn chiama "aggiunte ad hoc" o "eccezioni". Il marxismo, cui riconosco lo statuto epistemologico di scienza della storia e quello filosofico di pensiero dell'emancipazione, è in evidente crisi scientifica da quando almeno è evidente che la classe operaia e proletaria non è in grado di funzionare storicamente come "classe generale" anticapitalistica globale del mondo. Tuttavia, anzichè affrontare questa crisi scientifica con un mutamento coraggioso di paradigma, cioè di modello interpretativo, il che porterebbe ad una possibile rivoluzione scientifica di cui abbiamo bisogno come il pane (e senza la quale le fughe in avanti virtuali alla Toni Negri non cesseranno mai), il trotzkismo ritarda indefinitamente questa rivoluzione con i suoi concetti posticci (la rivoluzione permanente come etere, la burocrazia come flogisto, eccetera). Secondo la corretta definizione di Daniel Lindenberg, il trotzkismo è una tipica teoria di "media portata" (middle range theory), che prende bensì in considerazione le anomalie, ma non intende portare fino in fondo la messa in discussione del modello, si ferma a metà strada, ed in questo modo è un fattore di ostacolo e di impedimento ad una vera rivoluzione scientifica.

 

19. A partire del 1938, data di fondazione della Quarta Internazionale, il trotzkismo è impegnato in una gigantesca lotta teorica per calibrare in modo esatto lo statuto teorico della sua centrale categoria di burocrazia. Contro Burnham ed i teorici della "rivoluzione dei tecnici" rifiuta la teoria dell'avvento di una nuova classe gestionale tecnocratica al di là della differenza fra capitalismo e socialismo (ed a mio avviso ha avuto pienamente ragione). Contro la Arendt ed i suoi numerosi seguaci si è sempre battuto contro la generica categoria di "totalitarismo" (ed a mio avviso ha avuto pienamente ragione). Contro le sue stesse dissidenze interne (Tony Cliff ed altri) si è sempre battuto contro la categoria di semplice capitalismo di stato (ed a mio avviso ha avuto sostanzialmente ragione). Infine, contro il nuovo maoismo teorico europeo degli anni Sessanta e Settanta, ha sempre sostenuto che la burocrazia dei paesi socialisti era solo un ceto politico parassitario, non una nuova organica classe sfruttatrice. Su questo punto a mio avviso ha avuto torto (mentre gli do ragione nei tre precedenti casi di Burnham, Arendt e Cliff). Ed il perchè ha avuto torto è questione di cruciale importanza.

La conoscenza dei modi di produzione antico-orientale (Egitto, Mesopotamia, eccetera) ed asiatico (Cina, India, eccetera) ci dice in modo inequivocabile che l'esistenza delle classi sfruttatrici non è legata alla proprietà privata dei mezzi di produzione personale e giuridicamente trasmissibile per contratto e testamento, ma è legata alla disposizione reale sui mezzi di produzione stessi, che possono anche essere (e sono) di proprietà collettiva, statale e religiosa. Perchè ci siano le classi, dunque, non è necessario che ci siano anche commercialisti e notai. Questo il maoismo lo capisce, ma il trotzkismo no. Ed il perchè è relativamente semplice. Il trotzkismo è una forma di marxismo classico, fortemente eurocentrico e fortemente ortodosso in senso secondinternazionalista. Questo marxismo pensa la proprietà in termini di sviluppo del diritto romano. Il maoismo invece, almeno nelle sue versioni migliori, accetta lo schema dell'evoluzione multilineare e non unilineare dello sviluppo storico, e questa mossa strategica decisiva gli permette di capire ciò che per il trotzkismo è incomprensibile, e cioè che la questione delle classi sociali antagonistiche deve essere metodologicamente separata dalla questione della proprietà privata giuridicamente trasmissibile dei mezzi di produzione.

 

20. Dal paragrafo 10 al paragrafo 19 ho svolto una sintetica analisi critica del trotzkismo sulla base dei suoi tre concetti teorici fondamentali. Ho invece trascurato importanti questioni di carattere tattico-politico (il fronte unico alla base, il fronte popolare, la militanza dentro i sindacati riformisti, il cosiddetto "entrismo" nei partiti socialisti e comunisti, eccetera) perchè non era questo l'oggetto del mio contributo. L'oggetto era sempre e solo il "fondamento ultimo" di una teoria, il suo modello conoscitivo permanente. Sono consapevole del fatto che se un trotzkista leggerà queste pagine, si irriterà e le respingerà frettolosamente, e questo è un peccato, perchè in questo modo ciascuno si chiude autoreferenzialmente in sè stesso ed una discussione non può neppure avviarsi. Ma tutto questo non è in mio potere.

 

21. Non è oggetto di questo contributo la ricostruzione storica delle vicende della Quarta Internazionale trotzkista fondata nel 1938. Essa ha avuto molte vittime sia per la repressione stalinista che per quella nazifascista (cfr. J. J. Marie, Il trotzkismo, Mursia, Milano 1971). Personalmente, ho avuto l'onore ed il piacere di conoscere alcuni dei principali dirigenti trotzkisti europei. Ho conosciuto Livio Maitan, vecchio e notissimo dirigente trotzkista italiano, quando visitavo (senza alcun potere reale di direzione politica) la Direzione Nazionale di Democrazia Proletaria dal 1988 al 1991, data dello scioglimento contrattato di questo partitino nel partito della Rifondazione Comunista con riciclaggio parlamentare contrattato di una cordata dei suoi dirigenti. Ho conosciuto ad Atene nel 1991 Pablo (Michalis Raptis), mitico dirigente della prima fase del dopoguerra della Quarta Internazionale, teorico di improbabili "secoli di dominazione burocratica" e figura rispettata della sinistra greca. Ho conosciuto a Parigi nel 1988 Ernest Mandel in occasione delle cerimonie per il cinquantenario della Quarta Internazionale, ed ho sempre imparato molto dai suoi scritti, in particolare dal suo mitico Trattato di economia marxista in due volumi pubblicato negli anni Sessanta in Italia dalla Samonà e Savelli. Potrei continuare a citare delle persone per bene che ho conosciuto e che conosco, ma non è questa la sede. Se però ho voluto fare un piccolo intermezzo personale, è solo per ricordare ancora una volta che non pratico e non ho mai praticato l'anti-trotzkismo, e che mi si potrà accusare di tutto, ma non di essere in malafede. La mia critica al trotzkismo, che è decisa e radicale, è integralmente teorica, ed è sprovvista di ogni astio, anche perchè non sono un ex-trotzkista, e non ho dunque nessun bisogno di fare quelle atroci e ridicole rese dei conti tipiche degli ex che devono chiudere conti personali.

Quinta parte

22. Dal 1938 la storia del trotzkismo si risolve nella storia delle sue scissioni. Queste scissioni sono state tanto numerose, insistite, continue, pittoresche da provocare una vera sorpresa ed un vero sbalordimento in tutti gli osservatori non prevenuti. I trotzkisti non sono assolutamente in grado di capire il perchè di queste continue maniacali scissioni, e le spiegano con la dilettantesca categoria del fatto che noi abbiamo (o abbiamo avuto) ragione e loro, gli scissionisti, hanno (o hanno avuto) torto. Questo criterio del tutto autoreferenziale non è ovviamente in grado di cogliere il centro del problema, che pure è sotto gli occhi di tutti.

Ed il cuore del problema sta in ciò, che è assolutamente impossibile ricavare una strategia ed una tattica a livello addirittura mondiale (perchè la Quarta Internazionale, o meglio la sua mitica ricostruzione, è mondiale per definizione aprioristica) partendo da un sistema dottrinario come il trotzkismo. Sta qui il 90% dei problemi del trotzkismo. Non appena un gruppo di trotzkisti raggiunge la consistenza di alcune centinaia di aderenti, esso si spacca subito in due, e così in continuazione per scissioni successive. A seconda di come il fenomeno viene visto, se dall'interno o dall'esterno, esso è tragico oppure comico. Il fatto è che un sistema dottrinario non può indicare concretamente nè una strategia nè una tattica. La strategia ovviamente in teoria c'è, ed è addirittura la rivoluzione socialista mondiale, ma questa strategia è talmente generica da non poter mai per definizione "riempirsi" di contenuti tattici precisi. Questi contenuti vengono sempre in teoria estrapolati dalle scelte tattiche di Trotzky degli anni Venti e Trenta del Novecento, scelte tattiche che maturarono in un contesto storico che è ormai lontano da noi come Mario e Silla ed i guelfi e ghibellini, e che invece i trotzkisti ripropongono sempre maniacalmente con alluvionali articoli sulle loro rivistine clandestine. Si hanno allora paradossi tragicomici, per cui formazioni trotzkiste che continuano per abitudine a rifiutare i fronti popolari degli anni Trenta (perchè a suo tempo Trotzky li rifiutò in Francia e Spagna nel 1936 e poi durante i primi anni del secondo dopoguerra 1945-50) poi votano apertamente Rutelli contro Berlusconi in Italia e Chirac contro Le Pen in Francia.

Non mi interessa sparare sulla Croce Rossa. Mi rendo perfettamente conto che la malattia professionale di chi fa politica è la "convulsione tattica", variante sociale dell'epilessia. Bisogna sempre fare, fare, indicare, mobilitare, dare indicazioni di voto, eccetera. Personalmente ho deciso di fare un passo indietro e di uscire da questo mondo parallelo, non certo perchè disprezzo chi ne fa parte (tutto al contrario), ma perchè ritengo che la precondizione per una attività teorica creativa indipendente (cattiva o buona che sia, è un'altra faccenda) sia proprio l'allontanamento da ogni gruppo organizzato, che ti costringe a "giustificare" le sue svolte tattiche ed elettorali. Questo è tutto tempo perduto per lo studio, in particolare per lo studio dei "fondamenti ultimi" delle teorie in crisi scientifica che avrebbero appunto bisogno di una rivoluzione scientifica, rivoluzione che dirigenti e militanti di partito non vogliono assolutamente per ragioni identitarie.

 

23. Possiamo avviarci verso la conclusione. Prima, però, è necessario toccare tre punti di assoluta attualità nel rapporto fra il trotzkismo e la storia contemporanea. Si tratta rispettivamente del rapporto del trotzkismo con il movimento del Sessantotto, dell'atteggiamento del trotzkismo nel corso della dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1985-1992), ed infine del tema attuale del rapporto fra il trotzkismo e la globalizzazione, cioè del cosiddetto movimento no-global. Si tratta dei tre temi più scottanti e controversi, quelli su cui è consigliabile che la discussione si sviluppi e si concentri.

 

24. Dopo la lunga traversata nel deserto del periodo 1945-1968, in cui il Segretariato Internazionale trotzkista (Maitan, Mandel, Frank, eccetera) scelse fondamentalmente la tattica detta "entrista" nei partiti socialisti e comunisti (sopravvalutando ovviamente la separazione fra base e vertice, e non comprendendo la sostanziale omogeneità sia ideologica che sociale fra questa base e questi vertici - ogni base, infatti, ha sempre i vertici che si merita, nel bene e nel male), gli anni Sessanta sono in Europa un momento di rivitalizzazione del trotzkismo. Vi sono ovviamente differenze molto grandi fra Italia e Francia. In Italia il duro lavoro di formichine dei trotzkisti fra il 1956 ed il 1968 si disperde in grande misura nel Sessantotto, in cui molti militanti trotzkisti (Negarville, Vinci, Illuminati, eccetera) defluiscono verso formazioni di tipo operaista, populista, maoista, eccetera. A mio avviso, si tratta della tradizionale debolezza teorica del movimento italiano e della sua storica indifferenza verso le ideologie organizzate. In Francia, al contrario, i trotzkisti riescono per la prima volta in Europa a costituire un'organizzazione relativamente di massa (la Lega Comunista di Alain Krivine). In generale, in Francia il trotzkismo negli ultimi trenta anni è sempre stato un fattore permanente, anche se marginale, della vita politica e culturale francese. Dopo il 1945, è Parigi la vera capitale del trotzkismo.

Giunti all'appuntamento con il 1968, i trotzkisti ne fraintendono subito la natura profonda. Impressionati dalla mobilitazione studentesca prima e poi operaia lo interpretano come una sorta di "prova generale" (rèpètition gènèrale) della rivoluzione socialista nelle nuove condizioni urbane e tecnologiche. È questo un caso di wishful thinking, cioè di speranza travestita da analisi (in modo peraltro molto simile a certe sopravvalutazioni odierne esagerate del carattere rivoluzionario del movimento no-global). L'ideologia gioca qui un comprensibile ruolo di mascheramento (ne fui comunque anch'io vittima a quel tempo, e chi è senza peccato scagli la prima pietra). In questo modo il trotzkismo, insieme con tutto il restante messianesimo rivoluzionario, non capiva e non poteva capire che la corrente principale e dominante del Sessantotto non era assolutamente la riproposizione della rivoluzione operaia e proletaria, ma era la modernizzazione capitalistica post-borghese del costume, in direzione di una società self-service in cui le abitudini sessuali e di consumo non erano più sottomesse al cosiddetto Super-Io repressivo protoborghese. Questa incomprensione radicale, comprensibile per chi rifiutava il situazionismo ed Adorno, portò il trotzkismo ad essere del tutto disarmato verso le sciocchezze alla moda del femminismo differenzialista (peraltro contrastato dai trotzkisti più intelligenti, come l'italiana Lidia Cirillo). Ancora oggi, ed anzi direi soprattutto oggi, la radicale incomprensione della natura dialettica del Sessantotto (e cioè la sopravvalutazione dei suoi aspetti superficiali militanti e la sottovalutazione dei suoi dominanti aspetti di modernizzazione post-borghese ed ultra-capitalistica) continua a pesare sugli orientamenti strategici della cultura di opposizione, e ricordo qui solo l'incredibile silenzio verso l'antropologia "desiderante" di Toni Negri e delle sue macchine teurgiche attribuite addirittura a Spinoza (e mi rivolgo qui all'anima della grande spinoziana italiana Emilia Giancotti perchè fulmini dal cielo i dementi).

 

25. I trotzkisti arrivarono all'appuntamento della dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1985-1992) armati dello schema teorico incapacitante del popolo socialista intenzionato a fare una rivoluzione politica contro la burocrazia di partito, a sua volta solo un ceto parassitario e non una classe sfruttatrice. In tutta serietà, è come se i navigatori del Cinquecento si fossero messi in mare sulla base della teoria della terra piatta e degli oceani che si rovesciavano nel vuoto stellare appena le navi fossero giunte ai bordi del pianeta.

Sulla base di questo schema, si avevano forze antiburocratiche (Solidarnosc, Eltsin, gli sciagurati minatori russi, i fronti popolari baltici, eccetera), burocrati oscillanti e possibilisti (Gorbaciov) ed infine burocrati conservatori e reazionari (Honecker, Ligaciov, Nina Andreieva, eccetera). Si erano così messe le basi per battezzare "sinistra" Eltsin e "destra" Ligaciov, e questo durò alcuni anni (1988-1991). Ci si può chiedere come è possibile essere tanto stupidi e non vedere l'evidenza. Una persona intelligente ed onesta come Ernest Mandel si mise a contare i cartelli dei manifestanti di Berlino Est del novembre 1989, al tempo della autoliquidazione del muro di Berlino, e ne trasse la conseguenza onirica per cui stava per ritornare la rivoluzione antiburocratica di Trotzky e di Rosa Luxemburg. Niente di strano. Nel Seicento gli astronomi tolemaici a volte mettevano il naso davanti al cannocchiale galileiano, ma vedevano sempre e soltanto il sole che girava intorno alla terra. Come sanno bene gli psicologi, non basta guardare, ci vuole anche il giusto orientamento gestaltico, cioè non vedere un'oca dove c'è invece un coniglietto. Tutti i chimici sanno che finchè si prende in considerazione il flogisto non si possono fare i calcoli necessari.

I trotzkisti hanno pervicacemente guardato gli anni 1985-1992 con gli occhiali del conflitto fra popolo socialista (buono) e burocrazia (cattiva, ma pur sempre non una classe sfruttatrice). A questo punto la dinamica della restaurazione diventava incomprensibile, nonostante analisi particolari molto intelligenti (ricordo qui le analisi di David Seppo pubblicate in francese su Inprecor). Il fronte restauratore formato da un blocco di alti burocrati di partito, dirigenti delle imprese statali in via di privatizzazione, mafia russa ed internazionale e sionisti pazzi, sulla base di una passività politica delle masse e di una mobilitazione ultraoccidentale degli intellettuali, diventava così invisibile per i trotzkisti, irrigiditi nella contrapposizione inesistente di un Popolo di Sinistra e di una Burocrazia di Destra.

 

26. Con il 2000 arriva Seattle, con il 2001 Genova e con il 2002 Porto Alegre. Nasce il "movimento dei movimenti", il cui slogan è "un altro mondo è possibile". Certamente una buona cosa, anzi un'ottima cosa, in cui è bene stare dentro e non fuori, ma anche qualcosa che solo un illuso potrebbe considerare il "successore storico" del movimento operaio e comunista. Si ripete qui la vecchia illusione del Sessantotto. Ciò che si vuole credere vero diventa vero. L'incessante produzione di ideologie sostituisce l'analisi storica e politica. La paura di doversi adattare ad un mondo da incubo in cui vi saranno solo più Bush e Bin Laden che si confrontano spinge le anime belle a pensare di aver già trovato la formula della futura rivoluzione mondiale. Ed allora non è un caso che i trotzkisti siano in prima fila nella coltivazione irresponsabile di queste affrettate illusioni.

Ciò non avviene ovviamente a caso. Nel paradigma teorico trotzkista classico ci sta sempre la rivoluzione mondiale e solo mondiale, la negazione più estrema della questione nazionale, il demenziale slogan "Il Proletariato / Non ha Nazione / Internazionalismo / Rivoluzione", il sospetto ed il disprezzo verso tutte le forme di interclassismo anti-imperialista, eccetera. È una vecchia storia, sempre la stessa storia. La globalizzazione è vista come l'involucro finalmente trovato in cui si potrà portare avanti la rivoluzione trotzkista mondiale.

Tutto questo non sarebbe grave, e non è di per sè grave, se non si incontrasse con le ben più seducenti teorie alla Toni Negri ed alla Naomi Klein di un mondo imperiale unificato senza imperialismo. I trotzkisti, senza assolutamente volerlo, rischiano di essere solo i portatori d'acqua "militanti" di questo paradigma. Questo paradigma, lo si noti bene, lo si tenga a memoria e lo si ficchi bene in testa a tutti i confusionari bene intenzionati, è in questo momento quanto di peggio ci possa essere sul mercato delle idee. Solo una cultura imperialista può seriamente dire che non c'è più l'imperialismo, e che bisogna indebolire e svuotare di ogni sovranità lo stato nazionale. Se si assume questo punto di vista spregevole, solo un passo ci divide dal riconoscere la natura "provvidenziale" dell'unificazione militare americana del mondo, l'opportunità di intervento democratico ed umanitario contro i cosiddetti "stati canaglia" (cioè contro gli stati che gli USA unilateralmente ritengono tali), e tutta la spazzatura difesa dai vari Adriano Sofri e dagli altri ipocriti cantori dell'impero e del sionismo.

Si dirà che i trotzkisti non c'entrano niente con questa merda imperiale. E formalmente è così. Ma qui non si stanno facendo processi a nessuno. Qui si sta solo rilevando che chi continua a "pensare il mondo" con uno schema inadeguato finisce con il portare acqua al mulino di nemici ed avversari.

 

27. E qui posso proprio concludere. Ancora una volta, e sia ben chiaro, i trotzkisti non sono nè nemici nè avversari. Fra di loro vi sono innumerevoli individui per bene, combattenti anti-imperialisti, manifestanti per la pace, tutte persone che sono fratelli e compagni. Ma qui si parla di paradigma teorico, di occhiali per guardare il mondo. È ora di cambiare questi occhiali, talmente appannati da non vedere più niente. O li cambiano, o sarà Toni Negri a portarli per mano. È triste dire questo, anche perchè non ho molte illusioni, e so perfettamente che non li cambieranno.

  

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