commenti,
contributi e opinioni
E-mail
kynoos@jadawin.info
La
società attuale, pressoché in tutto il mondo con poche eccezioni in
alcune popolazioni, ha come forma organizzativa il patriarcato.
È
inutile dire, se si è almeno un poco progressisti, quanto ci sia di
negativo, deleterio, malvagio e anche criminale in tale forma
organizzativa della società. Taluni hanno voluto vedere, in
base a teorie, prove e testimonianze su cui la “scienza
ufficiale” si pronuncia in modo contradditorio e per lo più in negativo,
in un passato piuttosto remoto l’esistenza di una prima forma
organizzativa molto diversa, ovvero il matriarcato. Molti di coloro
che ne parlano lo fanno in modo positivo o addirittura mistico.
Anche gran parte delle femministe lo hanno
fatto e lo fanno.
Ci
sono anche, però, alcuni psicanalisti, che sembrano affetti da una
sindrome antifemminile, che ne parlano come la causa di tutti i mali
dell’umanità.
L’argomento
mi ha sempre interessato e, dal momento che
non sono un esperto neanche in questo, creo questa pagina nell'ottobre
del 2013 dc inserendo alcune dei più
interessanti contributi presenti nel web.
***
Dal
sito Armonie http://www.women.it
il 18 Settembre 2013 dc:
Peggy
Sanday ha scritto questo
articolo su "The Oxford Encyclopedia of
Women in World History" Enciclopedia Oxford
delle Donne nella Storia del Mondo
Matriarcato
Il
ruolo del matriarcato nella storia delle donne è stato oscurato dagli
stereotipi utilizzati nella teoria sociale occidentale maschile che
riguardano la natura del potere. Verso la fine del XIX secolo il
concetto di matriarcato ha giocato un ruolo importante nel dibattito sui
presunti livelli di evoluzione delle società: da quelli “primitivi” del
governo femminile ai “più avanzati” governi
maschili. Alla fine del XX secolo
questa
definizione di matriarcato è stata respinta a favore di una approccio
comparativo su basi etnografiche, che ha permesso una comprensione meno
marcata della logica della responsabilità
dei generi in alcune società specifiche. All’inizio del XXI secolo,
questo nuovo approccio ha costituito la base da cui ha
preso avvio il fiorente campo degli studi matriarcali.
Da
un concetto di matriarcato pensato come semplice stato pre-patriarcale
evoluto e riferito a società incentrate sulle donne, si è passati a
quello di società fondate su un principio di equilibrio di genere e di
economia del dono.
Questa
nuova definizione riflette una filosofia sociale materna verso una
cultura globale che persegue la pace e sottolinea
l’importanza di prendersi cura dei giovani, degli anziani, degli
ammalati e dei poveri.
Storia
della
Definizione del Matriarcato
Storicamente
la parola “matriarcato” si è evoluta dall’antico uso delle parole
“matriarca” e “patriarca” che indicavano
il capo (donna o uomo) di una famiglia o di una tribù: gli anziani o le
anziane di potere di una famiglia o di un gruppo.
Gli
antenati del popolo ebraico sono i tre patriarchi Abramo, Isacco e
Giacobbe e le quattro matriarche Sara, Rebecca, Rachele e Leah.
Abramo, il cui nome
in ebraico signica “padre di tanti”, è il
primo dei grandi patriarchi biblici e il fondatore dell’antica nazione
ebraica. Il nome “Sara” ha lo stesso significato nel capitolo 17
della Genesi, quando Dio dice ad Abramo che sua moglie Sara “ diventerà
nazioni e re di popoli nasceranno da lei” (Genesis
17:15-16).
La
parola “matriarcato” è
stata utilizzata nel XIX secolo per
significare “governo delle donne nella famiglia e nella società agli
albori della società umana”. Questa
evoluzione del concetto è in
parte una reazione alla credenza diffusa di quel tempo secondo la quale
la dominazione maschile era all’origine della società umana. Il
fondamento concettuale del matriarcato è stato posto da alcuni
evoluzionisti del XIX secolo: Johann
Jakob Bachofen, con Das
Mutterrecht ( 1861 ), Lewis Henry Morgan,
con League of the Ho-dé-sau-nee,
o Iroquois ( 1851 ), e John McLennan
con Primitive Marriage (1865 ).
Sebbene questi autori non utilizzassero il termine specifico
“matriarcato”, la loro caratterizzazione della prima società umana con
termini come Mutterrecht (legge o diritto
della madre), "discendente in linea femminile,"
and "gynecocracy", ginecocrazia, hanno
preparato la strada alla definizione di matriarcato come immagine
speculare del patriarcato. Bachofen
equipara ad esempio Mutterrecht a
ginecocrazia, probabilmente perchè
riteneva che nessuna società avrebbe potuto sviluppare usi e costumi
orientati alle donne se non fossero state
le donne a governarla.
Opuure, ha forse subito l’influsso di
fonti greche antiche che facevano
talvolta riferimento al "governo della donna” nel descrivere usi e
costumi orientati al femminile.
Il
concetto di
progressione evolutiva dalle forme sociali materne a quelle
paterne rimane ancora oggi un tema centrale
nel dibattito sul matriarcato.
Il libro più citato al riguardo è
quello di Friedrich Engels,
Ursprung der
Familie, des Privateigentums,
und des Staats.
Attingendo fortemente da Bachofen, Morgan,
e McLennan, Engels
argomenta che la transizione dalle società dei primati
a quelle umane con strutture sociali più
antiche avvenne grazie al valore sociale
della solidarietà femminile, che trascendeva la competitività sessuale e
la gelosia, legate alla presunta pratica
comune del matrimonio di gruppo. In questo tipo di matrimonio si
riteneva che la discendenza dovesse essere rintracciata secondo il
lignaggio femminile perchè solo la madre
del bambino era conosciuta. Il debito di
Engels verso i suoi
predecessori si riflette nell’ uso che fa
del termine Mutterrecht , come pure nel suo
modello della presunta progressione dal materno al paterno, in cui parla
di “sconfitta storica del sesso femminile”
allorché gli uomini “presero il comando
della casa”. Engels
non usa il
termine “matriarcato” anche se Mutterrecht
è molto vicino.
Matriarcato:
Donne
Minangkabau con bambini.
I
Minangkabau
costituiscono la più grande società matrilineare al
mondo.
Cortesia
di Peggy
Reeves Sanday
La
prima analisi estesa sul matriarcato è apparsa in un articolo poco
conosciuto pubblicato nel 1896 dall’antropologo
Edward
Burnett Tylor, "The Matriarchal
Family System", in cui si discute “della storia e del significato del
grande e antico sistema materno” (p. 82). Secondo
Tylor, quando
McLennan mise in evidenza l’antico
sistema materno descrivendo la relazione tra matrimonio di gruppo e
discendenza femminile, diede luogo a una grande controversia tra gli
studiosi poichè la sua teoria rovesciava la
“visione patriarcale accettata” , definita da Henry Maine nel
Ancient Law
(1861) un postulato del sistema primordiale del potere paterno. Tylor
notò inoltre che, come Bachofen e Morgan, McLennan
"proponeva un
insieme di materiali riguardanti popoli antichi e moderni che erano
soliti tracciare la loro discendenza non
attraverso il lineaggio del padre ma
attraverso quello della madre”
Presentando
il sistema familiare dei Minangkabau
- Sumatra Occidentale, Indonesia - come un modello prototipale
di matriarcato, Tylor cita il lavoro di un
funzionario coloniale olandese, che nel 1871 descrive la donna anziana
come il centro della vita nell’abitazione comune dei Minangkabau.
Secondo Tylor l’abitazione comune, che può
essere occupata da più di cento persone, “forma una sa-mandei
o motherhood", “un insieme di madri” (p. 86)
Malgrado
la vivace descrizione di quello che Taylor definisce una serie di
sistemi familiari “matriarcali” in varie parti del mondo, egli
rifiuta il termine "matriarcale" sulla base del fatto che pur essendo
questo un “miglioramento di definizioni precedenti dà troppo per
scontato che le donne governino la famiglia”. Egli lo sostituì con il
termine “famiglia materna” perché il “potere effettivo” era più
nelle mani dei fratelli e degli zii da parte di madre (p. 90). Questa
conclusione non è però confermata da nessuna delle osservazioni
effettuate nel XX secolo sui Minangkabau,
come quelle ad esempio di Franz von Benda-Beckmann
, Keebet von Benda-Beckmann
, Evelyn Blackwood e Peggy Reeves Sanday.
Ossia, come in molte società matrilineari le madri e i fratelli
Minangkabau condividano il
potere e siano responsabili di ambiti differenti nel governo della
famiglia e della società.
L’inizio
del XX secolo ha visto la scomparsa del termine “matriarcato” sia in
ambito antropologico che sociologico, effetti entrambi
della tendenza a confonderlo esclusivamente con
“dominazione femminile” e dell’esaurirsi del paradigma evoluzionista.
All’inizio degli anni ‘20, l’antropologo inglese William Halse
Rivers (1864-1922 )
a proposito della questione “diritto della madre e diritto del padre” -
a cui fa anche riferimento come matriarcato e patriarcato - rivendica il
fatto che “questi termini inappropriati stanno rapidamente uscendo
dall’uso a causa del generale riconoscimento che non esiste la questione
del governo delle donne nella maggioranza degli Stati a cui il nome
matriarcato può essere applicato”. Sebbene Rivers
concordi nell’abbandonare questo termine in Inghilterra e negli StatiUniti,
fa notare tuttavia che sarebbe stato sbagliato tornare alla dottrina di
Maine della priorità del diritto del padre.
Secondo Rivers
la teoria di Maine era "ancora più insostenibile" di quanto non fossero
le asserzioni che riguardavano la priorità del diritto della madre (p.
98). Rifiutando il modello degli stadi evolutivi del XIX secolo, Rivers
propone l’uso di descrizioni etnografiche particolaristiche in cui le
istituzioni sono trattate non come un semplice risultato di un semplice
processo evolutivo ma come la conseguenza di mescolanze e interazioni.
Questo
approccio particolaristico circa il dibattito sul matriarcato verrà
ripreso dagli antropologi solo più tardi nel xx
secolo, grazie agli studi etnografici di Peggy
Reeve Sanday
sui Minangkabau, che rivisitano
la definizione del termine “matriarcato” in base allo studio del sistema
dei costumi a cui i Minangkabau fanno
riferimento come “adat matriarchaat”,
“costumi
matriarcali”. Sebbene i Minangkabau abbiano
adottato molto probabilmente il termine "matriarcato" dai loro
colonizzatori olandesi, Sanday si rese
conto che l’espressione significava molto di più di una discendenza
matrilineare e di una famiglia incentrata sulle donne. “Adat
matriarchaat”, anche detto
“adat ibu”
(legge consuetudinaria delle donne) fa riferimento a un sistema di
simboli e a una serie di pratiche cerimoniali legati al ciclo della vita
che collocano le donne anziane al centro sociale, emozionale, estetico,
politico ed economico della vita quotidiana insieme ai loro fratelli.
Quando svolgono le loro funzioni cerimoniali
si fa riferimento alle donne anziane come bundo
kanduang. Il titolo significa "la nostra
stessa madre" e si riferisce all’antenata comune di ogni clan, come pure
alla propria madre biologica. È lo stesso titolo storico e mitico con
cui ci si riferiva alla regina madre dei Minangkabau,
che si pensava fosse vissuta nel XIV secolo. Un dramma popolare in forma
cantata narra il mito dello Stato di Minangkabau
e delle gesta di quella regina e dei suoi figli che insieme si
adoperarono per sostenere la legge adat,
che garantisce alla discendenza matrilineare lo status di legge divina.
Il
materno conferisce un‘autorità sovrana nella logica di genere dei
Minangkabau. Esercitare il
potere tramite la forza o adottare un atteggiamento di dominio da parte
degli uomini o delle donne è incompatibile
con l’ethos dei Minangkabau, per il quale
fondamentale è la politesse e il
mantenimento di relazioni pacifiche. Sanday
conclude basandosi sul potere predicating
dei simboli materni e sulla natura incentrata sul femminile di molta
della vita pubblica del villaggio “e che è ormai da tempo necessario
ripensare alla definizione occidentale di matriarcato”.
Ridefinendo
il
Matriarcato
Nel
ridefinire il matriarcato Sanday fa notare
che nelle società il cui fondamento sociale è forgiato dai principi
matriarcali, l’attenzione deve essere spostata dal potere coercitivo
verso la forza di persuasione della tradizione. In queste società, sia
uomini che donne ricoprono ruoli di
leadership ed esercitano la loro influenza sostenendo la tradizione. Una
studiosa irochese, Barbara Alice Mann, nella sua analisi sull’influenza
della sovranità femminile nella società irochese, ne presenta un
esempio. Come i Minangkabau,
anche gli Irochesi hanno un nome speciale
per definire le autorevoli donne anziane.
Il
Matriarcato non è un sistema di governo familiare o sociale connesso
esclusivamente al dominio del ruolo femminile. Il Matriarcato è un
sistema sociale bilanciato in cui entrambi i sessi giocano ruoli chiave
che si fondano sui principi sociali materni. Come le originatrici
simboliche, le donne, nel ruolo di madri e di donne anziane, sono quelle
che svolgono le pratiche che legittimano e rigenerano, o meglio, per
usare un termine più vicino a un approccio etnografico, coltivano e
nutrono l’ordine sociale. Sulla base di
questa definizione il contesto etnografico di un matriarcato “nuovamente
definito” non riflette un potere femminile sui soggetti, o un potere
femminile finalizzato a sottomettere, ma una responsabilità femminile
(tramite i ruoli di madri e donne anziane) di coniugare/intrecciare e
rigenerare i legami sociali qui ed ora, nel futuro e nell’aldilà,
attraverso la loro leadership nel sostenere la tradizione.
La
tradizione determina le regole della leadership appropriata
e tesse i legami sociali tramite l’economia del dono.
Un potere concepito in tal modo è in equilibrio, nel senso che è diffuso
tra coloro che lavorano in partnership per
sostenere le pratiche e le regole sociali. Ci sono molti esempi ben
descritti di società matri-centriche, come
i Minangkabau e gli Irochesi. Si possono
inoltre menzionare gli Zapotechi del
Messico e i Mosuo della Cina sud
occidentale..
In
queste società la logica di genere può essere sia prevalentemente matricentrica,
come nel caso dei Minangkabau, o impostata
su una dimensione complementare e diarchica,
in cui la “madre originale” è associata con la figura mitica maschile
che opera insieme a quella femminile, come
nel caso degli Irochesi. In entrambi i casi le
donne e gli uomini lavorano come partners,
benché in diverse sfere. Esempi di società matriarcali con logiche di
genere complementari sono i Tuareg del Sahara e del Sahel, i Kabili del
Nord Africa, gli abitanti delle isole Trobriand
del Pacifico, e i Lahu della China sud
occidentale.
Equilibrio
di
genere e Pace nelle Società Matriarcali
Gli
uomini e le donne condividono le responsabilità in tutte le società. La
questione da porre riguarda il grado e la simmetria o equilibrio di
questa condivisione. Riane Eisler
ne Il calice e la spada
(1987 ) e Marija Gimbutas
, The Civilization of
the Goddess: the world of
old Europe
(1991), fanno notare che esiste un’etica di equilibrio di genere e di
pace nelle società con valori materni.
Il
lavoro sul dono svolto da Genevieve Vaughan
in Per-donare-una
critica feminista dello scambio
(1997) suggerisce che l’equilibrio è ispirato e mantenuto tramite valori
che motivano il donare, funzionando da collante per i legami sociali.
Nel suo ampio lavoro sulla logica sociale del dono in
relazione
allo scambio, Vaughan distingue
tra la logica transitiva del dono e la logica intransitiva del dare per
ricevere un equivalente. Secondo Vaughan,
"l’agenda maschile nel patriarcato impone degli obiettivi che sono
consoni con il mercato e opposti al dono/pratica materna" (p. 55).
Come attraverso il dono supremo della maternità le
generazioni si legano le une alle altre, il dare e ricevere doni
intreccia la rete delle relazioni sociali.
All’inizio
del XXI secolo vi è stata un’ esplosione di
interesse verso il matriarcato che ha portato allo sviluppo del campo
dei nuovi studi matriarcali, iniziati dalla filosofa femminista Heide
Goettner-Abendroth, cui si deve anche il
Primo Congresso di Studi Matriarcali tenutosi in Lussemburgo nel
2003. Come Sanday, Goettner-Abendroth
sottolinea che il matriarcato non è parallelo
al patriarcato e fa notare che la radice greca “archè"significa
sia ‘dominio’ che ‘inizio” (p. 3). Diversamente da
Sanday, Goettner-Abendroth
colloca la sua visione del matriarcato in uno schema evoluzionista
universale rivendicando il fatto che le religioni originarie
dell’umanità erano indiscutibilmente matriarcali.
Ciò
che emerge in questo nuovi studi è l’impegno
sia di ricercare sia di agire congiuntamente a donne indigene per
lavorare insieme verso una cultura globale che rappresenti valori
matriarcali. In un mondo che corre chiaramente verso l’estinzione
attraverso la violenza settaria e il degrado ambientale, promuovere i
valori matriacali di pace, partnership,
equilibrio e rispetto per la differenza è
una risposta civile a un mondo litigioso che si sta frantumando.
Bibliografia
Benda-Beckmann,
Franz
von , and Keebet
von Benda-Beckmann. "Struggles
over communal property rights and law in Minangkabau,
Blackwood,
Evelyn. Webs of Power: Women, kin, and community in a
Eisler,
Riane. The Chalice and the Blade: Our
History, Our Future.
Gimbutas,
Marija. The Civilization of the Goddess:
the world of old
GÃttner-Abendroth,
Heide.
The Goddess and Her Heroes. Translated
by Lilian Friedberg. 10th ed.
Mann,
Barbara Alice. Iroquoian Women: The Gantowisas.
Rivers,
W. H. R. Social Organization.
Sanday,
Peggy Reeves. Women at the Center: Life
in a Modern Matriarchy.
Tylor,
Edward Burnett. "The Matriarchal Family System."
Nineteenth Century 40 (1896): pp.81-96.
Vaughan,
Genevieve. For-giving: a feminist criticism of exchange.
***
Dalla
voce Matriarcato di Wikipedia,
l'enciclopedia libera http://it.wikipedia.org/wiki/Matriarcato,
18 settembre 2013 dc
ore 11.00
Matriarcato
Il
matriarcato (dal latino mater (madre) e dalla
radice greca archein (essere a capo,
comandare), che indica il comando, detenuto dalla matriarca) è una forma
di organizzazione sociale alternativa al patriarcato.
L'archeologia
certo fornisce buon saggio dell'antichità dei culti femminili: sono
davvero numerose le cosiddette Veneri preistoriche ossia semplici
statuette (anche in forma di bétili o di
rocce lavorate) databili ad almeno 15.000 anni fa; queste
raffigurazioni, laddove prive di una caratterizzazione di sesso,
riproducono comunque archetipi di fertilità (seni e fianchi
enfatizzati), e molte epoche le separano dalle prime raffigurazioni
maschili. Si tratta dunque quasi certamente di segni femminili, sebbene
(almeno in qualche caso) ne sia un po' meno certa l'effettiva adibizione
ad oggetti di culto.
Si
noti, ad ogni modo, che queste pur affascinanti teorie non sono
unanimemente condivise, ed anzi sono
vigorosamente contestate sul punto dell'asserito nesso fra le
raffigurazioni spiritualiste e monumentali femminili e la supposta
supremazia politico-economica: nulla infatti conforta con rigorosa
scientificità la suggerita correlazione. La presenza di simbologia
femminile, cioè, non sarebbe in sé sufficiente ad
indicare una prevalenza delle donne sugli uomini. La polemica ha
peraltro debordato dall'ambito scientifico per riversarsi anche su
contrapposizioni ideologiche, acuite nel Novecento dallo sviluppo del
femminismo e dalle reazioni a questo contrarie.
Nella
mitologia greca, si ebbe con il mito delle amazzoni un emblematico
esempio di società matriacale. Studiando la
mitologia si reputa anche in Grecia la presenza di una società
matriarcale prima dell'arrivo degli Achei. I riti religiosi indicavano
un'autonomia della donna a rimanere in gravidanza e quindi a generare la
vita, la paternità non veniva tenuta in
nessun conto.
Altri
recenti studi nelle scienze sociali, hanno sostenuto l'ipotesi del
matriarcato come reale forma di governo delle comunità umane primitive
partendo dal fatto che nella storia comparata delle religioni risultano
divinità femminili molto importanti, con culti relativi come quelli
delle Dee Madri, anche personalizzate in dee come (Astarte,
Tanit, Cibele,
ecc..). Tali culti erano diffusi specialmente nel Mar Mediterraneo
centro-orientale, e la grande madre simbolicamente era
identificata con la terra che porta frutti. Tale ipotesi è collocata in
tempi più antichi di quelli in cui si è istituita l'agricoltura (che ha
portato il patriarcato) e da riferirsi alle epoche della sussistenza per
"caccia e raccolta", con la seconda costituente la fonte principale
delle derrate alimentari. Tesi ipotesi è
stata sostenuta ad esempio dall'antropologo spagnolo Pepe Rodriguez.
Il
matriarcato è una tipologia di società storica abbastanza rara, con
qualche reale esempio attuale. Il matriarcato non va confuso con la matrilinearità,
per la quale le linee ereditarie si seguono in via muliebre. Ciò è molto
diffuso nelle società primitive, in quanto
la madre è sempre sicura e il padre no, per cui l'opportunità sociale
che la filiazione faccia riferimento almeno ad un genitore certo per
poter costiture una linea ereditaria.
Il
matriarcato è una forma di governo nella quale il potere
politico-economico, nell'ambito di una data comunità, è demandato alla
madre più anziana della comunità stessa e, per estensione, alle donne di
tale società.
Secondo
alcuni, a partire dalle ipotesi avanzate da
Johann Jakob Bachofen nel suo saggio Il
matriarcato del 1856, il matriarcato fu l'organizzazione originale
dell'umanità, e solo successivamente questa venne sostituita dal
patriarcato.
Tali
tesi ritengono reale il matriarcato in epoca neolitica, riconoscendo
l'esistenza di un capo supremo donna e in generale delle donne
come capi-famiglia. All'uomo sarebbero state demandate le funzioni
pratiche di sussistenza (approvvigionamento, caccia - funzioni
"esterne" all'aggregato sociale, alla caverna), alla donna si sarebbe
invece delegata l'organizzazione sociale ("funzione interna").
Le
ipotesi, formulate col metodo deduttivo su un'esigua base d'indagine, si
articolano poi di molte corollarie
teorizzazioni, ma sostanzialmente pensano alla possibilità di nuclei
associati preistorici denotati da una figura femminile stabile nel
centro geografico di aggregazione del nucleo
sociale, mentre il maschio avrebbe avuto funzioni cercatorie,
esplorative e all'occorrenza di difesa. Per la presenza costante in
situ la donna avrebbe avuto dunque diretto e continuo contatto con
l'essenziale economia e dunque avrebbe di fatto
gestito il potere: ipotesi possibile, ma poco convincente. Molto di più
lo è quella che motiva il primato della donna e la sua gestione del
potere economico-politico con l'enorme prestigio che le derivava dal
fatto di essere considerata unica procreatrice dei membri del gruppo,
prestigio che le fu tolto solo dalla scoperta della paternità.
La
confederazione irochese, unione di alcune nazioni indiane americane,
presenta nei suoi fondamenti costituzionali diversi tratti indicanti
un'organizzazione matriarcale, o sessualmente paritaria[1]
[2]
[3][4].
L'etnografo
Bronislaw Malinowski,
dalla London School of
Economics, ha vissuto tra gli aborigeni
delle isole Trobriand (Melanesia
occidentale) e ha studiato la loro società nel 1914-1918, definendola
matriarcale e matrilineare[5]
Studiando diverse tribù del Pacifico occidentale e utilizzando il metodo
del confronto, Malinowski ha dato conferme
di un'idea di Lewis Morgan che il matriarcato fosse pratica comune in
molte società tribali. Le popolazioni delle isole Trobriand
mantengono questa struttura Ci sono ancora oggi alte società che
continuano a mantenere le caratteristiche
matriarcale come la Tuareg, Irochese, il Minangkabau
in Indonesia o in alcune popolazioni come quelle delle isole Comore,
l'indiano Kerala, i Khasi
[6],
abitanti dalle montagne Khasi e i Jaintia
dello Stato autonomo Meghalaya nel nord-est
dell'India.
***
Dal
sito International
Academy Hagia
, 12 Settembre 2013 dc:
Matriarcato
I
matriarcati non sono l’immagine speculare dei patriarcati come vuole il
pregiudizio comune, nel senso che in essi sono le donne a dominare sugli
uomini. I matriarcati sono invece delle società che mettono al centro le
madri, e che si basano sui valori materni: la cura, il nutrimento, il
supporto reciproco, l’attitudine a creare pace cioè l’atteggiamento
materno in senso generale. Questi valori valgono per tutti, per le madri
e le non-madri, per le donne e ugualmente per gli uomini.
I
matriarcati si basano consapevolmente sui valori materni e sul lavoro materno.
Siccome questi valori sono alla base di ogni società, i matriarcati sono
più realistici delle società patriarcali. Sono orientati
fondamentalmente verso i bisogni. Le loro regole mirano alla
soddisfazione delle necessità di tutte le persone. In questa maniera il
“mothering” (l’essere madre e
l’atteggiamento materno) viene trasformato
da un fatto biologico in un modello culturale. Questo modello rispecchia
molto meglio la condizione umana rispetto al modello di maternità inteso
e abusato dai patriarcati.
La
struttura profonda della società matriarcale (definizione strutturale)
Nelle
società matriarcali “eguaglianza” non significa la livellazione delle
differenze. Le differenze naturali che esistono tra i generi e tra le
generazioni vengono rispettate e onorate, ma
non vengono mai utilizzate per creare delle gerarchie come si usa fare
nei patriarcati. I generi e le generazioni differenti hanno una loro
propria dignità. Attraverso sfere di lavoro e d’azione
complementari si creano riferimenti reciproci tra i generi e le
generazioni che garantiscono un’azione in comune. Perciò le società
matriarcali, nonostante tutte le differenze, si possono definire più
precisamente come delle società d’uguaglianza complementare o di
“equivalenza” in cui viene prestata molta
attenzione alla conservazione dell’equilibrio sociale.
Questo
si può osservare a tutti i livelli della società:
a livello economico,
a livello sociale,
a livello politico,
a livello culturale.
A
livello economico, i matriarcati sono spesso ma non sempre società
agricole. Esistono anche delle società matriarcali basate
sull’allevamento di bestiame e società matriarcali urbane. Le tecnologie
agricole che svilupparono andavano dalla semplice orticoltura
all’agricoltura con l’aratro fino ai complessi sistemi d’irrigazione
delle prime culture urbane di tutto il mondo.
Si
pratica l’economia di sussistenza con indipendenza locale o regionale.
Il terreno e le case sono di proprietà del clan nel senso del
diritto d’uso; proprietà privata e pretese territoriali sono
sconosciute. Le donne dispongono pienamente dei beni essenziali, campi,
case e cibo, mentre la matriarca funge da amministratrice del tesoro del
clan.
I
beni circolano secondo un sistema che corrisponde alle linee di
discendenza e ai modelli di matrimonio. Questo sistema circolatorio
impedisce che i beni siano accumulati da un clan specifico o da una specifica
persona. L’ideale è la distribuzione e non l’accumulazione. Ogni
vantaggio o svantaggio che riguarda l’acquisizione di beni, è mediato da
regole sociali. Per esempio nelle frequenti feste dei villaggi o dei
quartieri, i clan più abbienti sono obbligati ad
invitare tutti gli abitanti per diminuire in questa maniera
drasticamente la loro ricchezza. In compenso guadagnano “onore”, cioè
prestigio sociale. In questo senso l’economia del clan e del villaggio
si basa sulla circolazione di doni.
A
livello economico i matriarcati si contraddistinguono per la loro
perfetta reciprocità e per questo li definisco come società di
reciprocità basate sull’economia del dono.
A
livello sociale, le società matriarcali sono basate sull’unione di clan
estesi. La gente vive insieme in grandi clan che sono formati secondo
principi di matrilinearità. Il nome del clan e tutti i titoli delle
posizioni sociali e politiche derivano dalla linea materna. Tale
matriclan consiste come minimo di tre
generazioni di donne: la madre del clan e le sue sorelle, le loro
figlie e le loro nipoti e gli uomini in linea diretta di parentela con
loro: i fratelli della madre del clan, i figli e i nipoti della madre
del clan e delle sue sorelle.
Il
matriclan vive nella grande casa del clan,
che alloggia dalle 10 alle 1000 persone,
secondo la grandezza e lo stile architettonico. Le donne ci vivono
permanentemente, perché le figlie e le nipoti, quando si sposano, non
lasciano mai la casa del clan materno. Viene
detta matrilocalità.
Anche
i giovani maschi del clan, quando si sposano o mantengono una relazione
amorosa, non lasciano la casa della madre. Si recano semplicemente nella
casa vicina dove vivono le mogli o le loro
amate e ritornano la mattina nella casa della madre. Questa forma molto
aperta di matrimonio viene detta visiting
marriage.
I
bambini sono in relazione di parentela solo con la madre e il suo clan
di cui portano anche il nome. Un uomo matriarcale non considera “suoi” i
bambini della moglie o dell’amante dato che
non condividono lo stesso nome del clan. Tuttavia, un uomo matriarcale è
in stretta relazione di parentela e di responsabilità con i bambini di
sua sorella: le sue e i suoi nipoti con i quali condivide
il nome del clan. La paternità biologica non è conosciuta o non ha
nessuna importanza. Non è un valore sociale. Gli uomini nel matriarcato
si prendono cura dei nipoti, maschi e femmine,
in una sorta di paternità sociale.
I
clan matriarcali si relazionano tra loro
attraverso complessi modelli di matrimonio che creano una rete di linee
di parentela che lega tutti gli elementi del villaggio in maniera più o
meno stretta. Questa parentela rappresenta un sistema di mutuo sostegno
che fa riferimento a delle regole fisse. Inoltre, donne e uomini possono
scegliere liberamente le loro relazioni amorose; dal
punto di vista sessuale uomini e donne vivono una grande
libertà.
Il
risultato è una società non gerarchica ma egualitaria che si
intende come un grande clan con mutui obblighi di sostegno. Per
questo chiamo i matriarcati a livello sociale società di discendenza
in linea femminile.
A
livello politico, persino il processo che porta alle decisioni politiche
è organizzato secondo le linee di
discendenza matriarcale. Le decisioni vengono
prese esclusivamente secondo il principio del consenso vale a dire
l’unanimità.
Gli
uomini e le donne si radunano in assemblea nella casa del clan, dove vengono
discussi gli affari domestici. Non è escluso nessun membro della casa, i
bambini ottengono all’età di 13 anni il
pieno diritto di voto. Lo stesso succede per il villaggio: se si devono
discutere questioni che riguardano l’intero villaggio, i delegati di
ogni casa del clan si radunano nell’assemblea del villaggio. Questi
delegati che discutono le questioni non saranno poi coloro
che prenderanno le decisioni ma la loro funzione è unicamente
quella di portare dei pareri; si scambiano le informazioni sulle
decisioni prese nelle singole case dei clan. I delegati sostengono il
sistema di comunicazione del villaggio e se nell’assemblea si vede che
non c’è accordo, tornano a discutere ancora le questioni nelle
rispettive case dei clan per poi tornare nel consiglio del villaggio. In
questo modo, il consenso nel villaggio si raggiunge passo dopo passo.
La
gente che vive in una data regione prende le decisioni nello stesso
modo: le decisioni dei villaggi e delle città vengono
coordinate dai delegati eletti che si scambiano le informazioni
nell’assemblea regionale. Anche in questo caso i delegati fanno avanti e
indietro tra l’assemblea regionale e quella del villaggio finché la
regione non trovi una decisione basata sul
consenso di tutte le case dei clan di tutti i villaggi.
È
impossibile che in una tale società si creino gerarchie o classi o anche
solo dei dislivelli di potere tra i generi e le generazioni. Le minorità
non vengono marginalizzate da decisioni
basate sulla maggioranza perché le decisioni politiche vengono prese
attraverso “una democrazia dal basso”.
A
livello politico chiamo per questo i matriarcati società egualitarie
basate sul consenso.
A
livello culturale, queste società non sono
caratterizzate da “religione primitiva”, “animismo” o “riti di
fertilità”. Questi termini non solo sono
dispregiativi ma anche errati perché nascondono che i sistemi religiosi
e la visione del mondo di queste culture sono complessi.
La
concezione fondamentale, che le popolazioni matriarcali hanno del cosmo
e della vita, si basa sulla fede nella rinascita. Come nel cosmo e sulla
terra vedono il ritorno di tutto così intendono anche l’esistenza umana
nei cicli della vita, della morte e della rinascita. È l’idea della
rinascita in senso molto concreto: tutti i membri di un clan
rinasceranno, da una donna del loro clan nella casa del loro clan.
In questo senso i bambini sono considerati le antenate e gli antenati
del clan e per questo sono sacri. Le donne sono molto rispettate, non
solo come creatrici della vita e come nutrici ma in particolar modo come
coloro che garantiscono la rinascita e hanno
quindi il potere di trasformare la morte in vita.
Le
popolazioni matriarcali hanno adottato questo concetto dal mondo
naturale in cui vivono perché la terra è la Grande Madre che garantisce
rinascita e nutrimento a tutti gli esseri. Essa è una dea primordiale,
l’altra è la dea cosmica come creatrice
dell’universo. Perché anche nel cielo si vede lo stesso ciclo
di andata e ritorno: tutti i corpi celesti sorgono e tramontano
ciclicamente e dopo ogni tramonto sorgono nuovamente. Il cielo e la
terra rappresentano insieme “il mondo” nel quale gli essere umani hanno
la loro collocazione. Il mondo è divino femminile. La concezione
matriarcale del divino è quindi immanente e non trascendente. Tutto è
divino, la creatura più piccola e la stella più grande, ogni donna e
ogni uomo. L’intera visione del mondo dei popoli matriarcali è
strutturata in modo non dualistico. Il loro concetto di mondo manca del
dualismo patriarcale che separa “uomo” e “natura”, “spirito” e “natura”
o “società” e “natura” e che ha portato alla svalutazione e allo
sfruttamento della natura come mera “risorsa”.
Nelle
loro feste che seguono il ciclo delle stagioni e altri ritmi della
natura, celebrano il mondo divino in tutte le sue forme dal più grande
al più piccolo. Ma anche nella quotidianità
ogni gesto pratico come la semina, la raccolta, la preparazione del cibo
o la tessitura è un rito pieno di significato. Siccome tutto nel mondo è
divino, le culture matriarcali non conoscono la distinzione tra sacro e
profano.
A
livello culturale chiamo i matriarcati
società sacrali o culture della Dea.
Letture
d’approfondimento:
Sulle
concrete società matriarcali del presente
Heide
Göttner-Abendroth: Das
Matriarchat II,1:
Stammesgesellschaften in Ostasien,
Indonesien, Ozeanien
Das
Matriarchat II,2:
Stammesgesellschaften in Amerika,
Indien, Afrika
Kohlhammer,
Stuttgart 1991/1999 e 2000
***
Dal
sito Cronologia http://cronologia.leonardo.it,
18 Settembre 2013 dc:
C’era
una volta il matriarcato?
Il
matriarcato
che incubo
CONTESE
STORICHE - Una domanda che periodicamente affiora
dall'inconscio
del maschio timoroso di perdere l'antico potere
di
Franco Gianola
Matriarcato.
Ginecocrazia. Ovvero la donna al potere. È esistito? Ritornerà? Una
freccia di angoscia piantata nell'inconscio del maschio. Se ne parla, si
polemizza da millenni sotto la spinta di
miti (ma anche di deduzioni storiche) certamente nati nel profondo della
sfera emozionale della società patriarcale. La contesa continua ai
giorni nostri. Il matriarcato esisterebbe negli Stati Uniti, secondo
qualche interpretazione maschile locale evidentemente nata da una
situazione fobico-ossessiva che distorce le
capacità di giudizio. In realtà la celebre "Momma"
americana, (protagonista del fumetto satirico creato dal cartoonist
americano Mel Lazarus), che "tenta" di
esercitare il potere sui figli adulti senza riuscire a scalfire la
sublime indifferenza di questi, calati in una cultura
moderno-patriarcale, dimostra l'illusorietà della tesi.
Certamente
la donna americana ha diritto di protestare, di fare le grandi
battaglie femministe o altro ma il potere reale si limita a fare
il muro di gomma, con qualche fastidio, come i figli di "Momma",
e
a pilotare strumentalmente la società femminile nelle situazioni
chiave del momento elettorale.
Niente
matriarcato, quindi, visto che il termine significa potere
delle madri e potere
indica un diritto fondato sulla proprietà delle decisioni politiche,
economiche, sociali. Le first-lady
degli Usa (le mogli dei presidenti) sorridono con
ammirazione-adorazione al loro eroe (che possono anche rimbrottare,
col dovuto rispetto), hanno il potere
di pubblicizzare le sue crociate più o meno
rovinose; le altre fanno le segretarie, le vice di vario tipo e
classe, il braccio destro, le cuoche, le pedagoghe, le ricercatrici e
altro ma quasi sempre in ruoli secondari… insomma, anche qui, come in
tutte le altre parti del mondo, si potrebbe canticchiare,
rovesciandolo, il verso della famosa e vecchia canzone, uomo,
tutto si fa per te.
È
sempre esistito, nella storia dell'umanità, questo stato di
subordinazione della donna o c'è stato un tempo in cui lei, la madre,
ha tenuto in pugno tutti i livelli di potere? Leggende, miti e
ricerche storiche (queste ultime spesso viziate dalla soggettivizzazione)
portano verso una risposta che propende per la seconda ipotesi. Gli
esempi che vengono dalla profondità del tempo e da analisi recenti,
sono innegabilmente suggestivi… e questo
ci invita a fare una passeggiata a ritroso nella storia.
Cominciamo
da uno studio del missionario americano Asher
Wright (vissuto fra gli Irochesi Seneca dal 1831 al 1875
osservandone a fondo le consuetudini), il quale ricorda che…
"…
per ciò che concerne le loro famiglie al tempo in cui essi abitavano
ancora le antiche case lunghe (amministrazioni comunistiche di più
famiglie) prevaleva quivi sempre un clan, cosicché le donne
prendevano i loro uomini dagli altri clan… Abitualmente la parte
femminile dominava la casa… le provviste erano comuni ma guai al
disgraziato marito o amante troppo pigro o maldestro nel portare la
sua parte alla provvista comune. Qualunque fosse il numero dei figli
o delle cose da lui personalmente possedute nella casa, in qualsiasi
momento poteva aspettarsi l'ordine di far fagotto e di andarsene. Ed
egli non poteva tentare di resistere, la vita gli era resa
impossibile, e non poteva far altro che tornare al proprio clan, in
altre parole andare a cercare un nuovo matrimonio in un altro clan,
cosa che il più spesso accadeva. Le donne erano, nei clan
, e del resto dovunque, la grande potenza. All'occasione
esse non esitavano a deporre un capo e degradarlo a guerriero
comune".
Ne
L'origine
della famiglia il filosofo tedesco Friedrich Engels
nota che i resoconti dei viaggiatori e dei missionari, riguardanti la
mola eccessiva di lavoro svolto dalle donne tra i selvaggi e i
barbari, non sono affatto in contraddizione con quanto è stato detto.
La divisione del lavoro tra i due sessi è condizionata da cause del
tutto diverse dalla posizione della donna nella società. Popoli presso
i quali le donne debbono lavorare molto di
più di quanto non spetti loro secondo la nostra idea, hanno per il
sesso femminile una stima spesso molto più profonda che non i moderni
europei.
E
infatti ognuno di noi oggi può rendersi conto che la
"signora" della società civile, circondata di omaggi apparenti ed
estraniata da ogni effettivo lavoro, ha una posizione sociale
infinitamente più bassa della donna primitiva, che lavorava duramente
ma era considerata presso il suo popolo come una vera signora (lady,
frowa, frau
hanno il significato di padrona) ed era tale anche per il suo
carattere.
Ma
torniamo al modello di vita delle tribù irochesi che è quello che si
avvicina, dal punto di vista antropologico, al concetto di
matriarcato.
Dagli
studi del gesuita Lafitau, fatti nel
1724, e dai lavori seguenti non risulta che nelle sei nazioni che
raggruppano il popolo irochese le donne
vengano trattate con particolari riguardi, ma è certo che godono di
diritti e poteri di rado eguagliati nella storia nota e provata.
In
questa collettività la regola della filiazione passa attraverso le
donne e la residenza è matrilocale, cioè sono mariti e figli che
vivono in casa della donna - e con tutti i mariti e figli appartenenti
alla gens -
casa sulla quale governa la "matrona".
La
matrona dirige anche il lavoro agricolo femminile che si svolge in
comune sui terreni collettivi di proprietà delle donne della
famiglia, distribuisce personalmente il cibo cotto dividendolo fra i
nuclei familiari, gli ospiti e i membri del Consiglio.
L'importanza
di queste donne è tale che esse fanno parte del Consiglio
degli Anziani della Nazione
(che ha come unica istanza superiore il Gran
Consiglio delle Sei Nazioni Irochesi).
La loro opinione è affidata a un maschio ma la voce di questi non può
essere ignorata perché la matrona ha - per legge - diritto di veto per
quanto riguarda le decisioni su eventuali guerre. Se la donna non
ritiene opportuno o giusto il progetto di guerra e gli uomini tendono
a ignorare la sua opposizione, ha la possibilità di bloccare
ogni operazione bellica semplicemente vietando alla collettività
femminile di fornire ai guerrieri le scorte di cibo indispensabili nei
lunghi viaggi di spostamento verso il luogo degli scontri e durante le
cacce al nemico.
L'antropologa
Judith Brown mette
in evidenza, in un suo lavoro del 1970, che le matrone
irochesi dovevano la loro condizione privilegiata al fatto di
controllare l'organizzazione economica della tribù (a loro spettava
anche il diritto di ridistribuire il prodotto della caccia del
maschio), la qual cosa è possibile, considerata la struttura sociale martrilineare
propizia, perché la principale attività produttiva della donna, cioè
l'agricoltura con la zappa, non è incompatibile con la possibilità di
occuparsi de bambini. La Brown sottolinea
inoltre che vi sono soltanto tre tipi di attività economiche che
consentono questo "cumulo" di incombenze: la raccolta, l'agricoltura
con la zappa e il commercio tradizionale.
Un
altro esempio dell'autorità della donna in determinati momenti storici
--il termine autorità è certamente più
aderente alla realtà dei fatti di quello di potere - ci viene anche
dall'epoca in cui visse il Profeta fondatore della religione
musulmana. A quel tempo, presso le tribù nomadi sia israelite che
arabe, la tenda (ciuppah)
è proprietà assoluta della donna, tanto che questa viene definita
"padrona della tenda" o "padrona della casa". In genere l'uomo non
possiede un rifugio e questa consuetudine lo mette qualche volta in
situazioni non proprio piacevoli, simile a quella vissuta da Maometto
che, dopo aver litigato con tutte le sue mogli, viene
cacciato dalla ciuppah
senza tanti complimenti e costretto a dormire sotto le stelle come un
saccopelista ante-litteram.
La
collettività femminile si rivela struttura portante della società
primitiva anche in uno studio condotto sugli Hopi, una comunità di
indiani Pueblo che dal VI secolo
vive nella zona del piccolo Colorado, in Arizona. Quando l'esploratore
spagnolo Francisco Colorado li scoprì nel 540, essi vivevano nello
stesso tipo di abitazioni usate all'origine della loro storia, divisi
in gruppi di circa trecento persone per un totale approssimativo di
tremilacinquecento individui. Le notizie più dettagliate sulla vita di
questo popolo vengono soprattutto dalle osservazioni fatte sul grande
agglomerato di Oraibi, che si è sciolto
alla fine del secolo scorso (vedi Uwe Wesel,
"Il mito del matriarcato", Saggiatore 1985).
Riporta
Wesel che, come tutti
i Pueblo, gli Hopi sono agricoltori e vivono principalmente
di mais. Solo di tanto in tanto vanno collettivamente a caccia di
conigli. La loro società si fonda sul lignaggio matrilineare e la
comunità, che produce e consuma in comune, costituisce la "famiglia
allargata" (a residenza matrilocale) formata dalla donna e dal marito,
dalle figlie sposate e dai loro mariti, dalle figlie e dai figli non
sposati e dai bambini delle figlie. Appare chiaro che la situazione
della donna è particolarmente favorevole perché, anche dopo la
costituzione della coppia, rimane nell'ambito della propria cerchia
familiare. Di conseguenza il legame con il marito non è
particolarmente forte mentre è molto sentito il rapporto con la madre,
i fratelli e le sorelle.
In
questa situazione, il maschio acquisito
dal gruppo resta isolato e,
in molti casi, vittima di una certa provvisorietà che prende
dimensione nel suo licenziamento
quando ha esaurito la funzione di inseminatore.
I figli, ovviamente, restano alla madre. Tuttavia, prima di ricevere
l'eventuale benservito, egli ha l'obbligo di lavorare nei campi della
famiglia della moglie, dato che la
coltivazione della terra è compito base degli uomini. Le donne si sono
riservate il governo della casa, la custodia e l'educazione dei figli,
la preparazione del mais. Attività, quest'ultima,
piuttosto complicata e faticosa, se fatta individualmente, ma di
facile esecuzione con il sistema del lavoro collettivo
adottato dalle Hopi.
"La
posizione relativamente debole dell'uomo
- riferisce Wesel
sulla base dei documenti da lui consultati - è
dimostrata dalla frequente critica cui il suo lavoro viene spesso
sottoposto nella famiglia della donna. Ed è una delle cause delle
frequenti separazioni. A Oraibi la
percentuale delle separazioni era del 34 per cento. Alice Schlegel,
che ha studiato da vicino gli Hopi, afferma che essi sono un caso
esemplare per quanto riguarda la posizione favorevole delle donne:
in altre parole né il marito né il fratello dominano la donna. Non
il fratello, perché quando egli si sposa
lascia il proprio nucleo familiare per trasferirsi presso quello
della moglie dove, come il marito della propria sorella, è a sua
volta trattato da straniero e relativamente isolato. Questo fattore,
unito alla forte solidarietà fra le donne (confermata dal lavoro
collettivo di macinazione del mais) e all'idea che campi e case
appartengono alle donne, ha determinato presso gli Hopi un
ordinamento sociale estremamente
favorevole al mondo femminile, in atto fin dai tempi remoti".
Dagli
esempi citati finora vediamo che matrilinearità e matrilocalità
producono un sistema matriarcale, ossia una società nella quale il
centro, il punto focale, è costituito dalla donna: ma questo non
significa che il potere le appartenga, che abbia la possibilità di
decidere globalmente sugli orientamenti della vita sociale. Lo dimostra
il fatto che soltanto gli uomini possono diventare gli
anziani del villaggio e quindi portavoce del villaggio: su questa
nomina le donne non hanno alcuna voce in capitolo. Se l'anziano gode
di una posizione estremamente autorevole - s'intende che
questa autorevolezza non gli permette di rivoluzionare un sistema
sociale, organizzativo e produttivo consacrato dall'esperienza
empirica - e anche di privilegi legati al culto, più robusta ancora è
la funzione del capo-villaggio, in genere giovane e perciò più duraturo,
che viene nominato dal suo predecessore. Anche il capo-villaggio
concentra la sua attività nella gestione dei vari culti, settore nel
quale le donne hanno scarso accesso (vi sono
anche dei culti femminili ma vengono tenuti in scarsa considerazione).
Questa
divisione di ruoli non mette in condizioni di inferiorità
la
donna, visto che praticamente il potere economico è nelle sue mani. Ma
non va sottovalutata l'importanza che deriva dalla detenzione
dell'autorità religiosa, strumento di grande forza suggestiva,
e perciò potenziale strumento di potere.
A
questo punto, dopo aver riflettuto sui due modelli sociali descritti,
lettrici e lettori saranno ancora in preda al dubbio sollevato dalla
domanda iniziale: "Il matriarcato è esistito?".
Gli
storici e gli antropologi - quelli seri, s'intende, che si attengono
scrupolosamente al metodo scientifico che richiede prove provate con
la massima rigorosità - rispondono con un deciso no. Se ci si attiene
ai fatti reali rinvenuti nella storia e alla definizione dell'English
Oxford Dictionary
dà del termine matriarca
identificando questa figura nella donna che ha lo status
corrispondente a quello del patriarca, in tutti i sensi della parola,
non si può certamente sostenere che nella storia vi sia traccia di
istituzioni nelle quali la donna abbia detenuto - oltre a quello
familiare - il potere sociale, politico e statuale così come lo
detiene l'uomo nell'ambito del patriarcato.
Dunque
no, il matriarcato non esiste. Anche se i ricercatori e gli
antropologi dell'Ottocento (valga per tutti Joahann
Jakob Bachofen, lo scienziato tedesco
autore, fra l'altro, de Il
potere
femminile) hanno scritto
fiumi di parole per dimostrare il contrario.
Eppure
questa idea del matriarcato è un fantasma costantemente presente nella
cultura maschile. Appare molto spesso nella
letteratura impegnata come nella novellistica o altra letteratura
d'evasione. L'idea della donna al potere e del potere
della donna sconvolge e terrorizza gli scrittori protocristiani
e li porta a scrivere lunghe e deliranti elucubrazioni sui poteri
malefici della donna, presa nella sua singolarità, e della società
femminile. Perché dunque questa
ossessione, questo incubo, ricorrente nei secoli, per una situazione
mai esistita? C'è dietro forse l'inconscia paura nei confronti della
donna, questo "altro", questo misterioso, complesso essere che il
maschio primitivo si trova accanto. Un essere il quale - senza che l'homo
erectus riesca
a spiegarsene la ragione - riesce magicamente
a far uscire dal suo corpo un'altra creatura vivente fatta a sua
immagine e somiglianza, un essere che ad
ogni luna perde sangue da una misteriosa ferita eppure non muore. Un
essere misterioso come la Grande Madre Terra, anch'essa dotata di
una forza inspiegabile e vitale. Un essere che può ridurre
l'uomo in una condizione totalmente subalterna?
Un’interessante
risposta ci viene dall'antropologa Ida Magli.
"L'itinerario
affettivo
e psicologico seguito da Bachofen, e
sulla sua scia dagli altri assertori del matriarcato, è
di grande importanza proprio per queste contraddizioni e va
analizzato con cura perché dischiude via via
a chi lo osserva meravigliosi e significativi orizzonti su ciò che
rappresenta la femminilità nell'inconscio maschile: visioni,
immagini, desideri, timori, sogni, angosce, speranze dalle quali è
scaturita, con una corrispondenza che affascina e sgomenta,
l'immensa costruzione culturale, il castello simbolico nel quale la
donna è racchiusa a fondamento e garanzia dell'Artefice maschio.
Sfilano così, dinanzi agli occhi stupiti e ammirati di chi legge,
associazioni illuminanti e straordinarie, quali solo la ferrea
razionalità dell'inconscio può suggerire, e si proietta attraverso
l'opera di un Bachgofen, di uno
Schmidt, di un Briffault, l'immagine
femminile che gli uomini accarezzano e sedimentano dentro di sé e
che si rispecchia nella cultura: un'immagine oscura e luminosa,
chiara e ambigua, tenera e crudele, protettiva e pericolosa, debole
e potente, portatrice di vita e di morte".
"Si
nota chiaramente in questo quadro"
afferma ancora Ida Magli in Matriarcato
e potere delle donne (Feltrinelli
1982), "come
i caratteri della femminilità, nell'attività, fantasmatica
dell'uomo, si associno sempre, malgrado
la loro apparente grandezza, a elementi negativi, nefasti. Per Bachofen
il numero due è femminile, perché allude al dualismo originario, ma
esso diventa perfetto soltanto nell'era del padre, della
mascolinità, elevandosi alla perfetta armonia del "tre".
"Infatti,
continua implacabile la Magli, il
principio tellurico religioso è femminile, ma
materiale e inferiore, mentre quello superiore, cosmico, si realizza
con il principio della luce, che è maschile… la donna è la terra, ma
la terra è una forza materiale, mentre l'uomo è il principio
spirituale, per cui il diritto materno caratterizza uno stadio
dell'umanità la cui concezione religiosa individua nella materia,
ossia nella terra, la sede più certa della forza materiale. Il
diritto
della
terra quindi è un diritto sanguinario e feroce che non conosce
altra sanzione che la morte; esso caratterizza un'epoca triste,
opprimente, selvaggia, l'epoca in cui l'aspetto delle Erinni,
immagini femminili della morte, è quello di una schiera grondante
di tanto sangue che esse stesse ne sono sazie".
Le
connessioni che Bachofen individua fra la
mitologia, simbolismo, religioni e immagini femminili della cultura
sono così suggestive e racchiudono una
tale verità maschile, che basterebbero da sole a testimoniare del
fatto che le strutture culturali sono opera del maschio, proiezione
esclusiva della sua visione del mondo. Ed è questa verità,
al tempo stesso psicologica e culturale per l'inestricabile
interazione che esiste fra l'inconscio e cultura, che ha impedito agli
antropologi di accorgersi di quanto fossero fantasiose e irreali le
loro descrizioni del Regno
delle Donne.
Potremmo
dire a questo punto, arrivando paradossalmente a conclusioni opposte a
quelle della professoressa Magli dopo essere ricorsi alla sua peraltro
esatta e affilata analisi, che il matriarcato esiste. Esiste in
quanto è nel conscio e nell'inconscio del maschio,
dell'intera società maschile. E' solo idea,
idea ossessiva per l'esattezza, ma le idee, consce o inconsce che
siano, pilotano il comportamento sociale. Se questa idea, chiusa
nell'archivio storico dell'inconscio collettivo maschile, non viene
riportata alla luce e analizzata, il matriarcato, o, se si preferisce,
la paura del matriarcato, continuerà ad esistere. Continuerà ad
esistere quella paura della donna - perché questa idea altro non è -
che rende affollati gli studi degli psicanalisti.
Una
paura che viene da lontano, dai territori della mitologia dove
prendevano corpo terrori, problematiche e simbologie espresse
dall'uomo diventato padrone dell'immaginifico.
L'uomo,
il maschio storico, teme continuamente di perdere il potere, e questo
timore lo esprime attraverso tutti i suoi mezzi i
comunicazione, dalla letteratura, all'arte, alla musica. Per questo
egli immagina che la dama di Ragnell
risponda, quando re Artù le chiede quale sia il desiderio femminile
contemporaneamente più sublime e più abbietto:
"Sire,
c'è
una sola cosa in cima ad ogni nostro
pensiero che tu adesso devi conoscere: noi desideriamo sull'uomo,
più che su tutte le cose del mondo, avere imperio".
Questa
paura trapela anche dalle pagine dell'Antropologia
pragmatica (1798) scritta da
quel grande pensatore tedesco che fu Immanuel Kant.
Disquisendo sulla sete
di potere il filosofo afferma che "per
quel che riguarda l'arte di dominare direttamente, come, per
esempio, quella della donna per mezzo dell'amore verso di sé che
essa ispira nell'uomo, per asservirlo ai propri fini, essa non è
compresa sotto questo titolo, perché non comporta nessuna
violenza, ma sa dominare i suoi soggetti col proprio fascino.
Non che il sesso femminile, nella nostra specie,
sia privo dell'inclinazione a dominare quello maschile (il
contrario è vero) ma esso per il suo scopo di dominio non si serve
del medesimo mezzo di cui si serve l'uomo, cioè non del privilegio
della forza (che qui si sottintende nel termine dominare) ma di
quello dell'attrattiva, che include in sé un'inclinazione
dell'altra parte a lasciarsi dominare".
Il
fantasma alberga anche nella mente del più grande poeta tedesco,
Wolfgang von Goethe (1749-1832), che nel primo atto del Faust
fa dire a un personaggio:
"Le
madri! E' sempre come se mi colpisse un fulmine. Che cos'è questa
parola che non mi piace sentire?"
Ma
torniamo ora alla ricerca delle origini dell'idea di matriarcato (che
ispira reverenziale timore) verso tempi molto più lontani, all'età
della pietra, nella quale l'archeologia è andata a strappare
testimonianze che permettono di sostenere abbastanza solidamente la
convinzione che ai primordi della storia la dimensione
donna abbia avuto nella vita
del maschio un ruolo dominante.
In
questo periodo lungo circa 25mila anni, troviamo
che l'immagine scultorea, sia che provenga da Willendorf,
nella Bassa Austria, dove venne trovata la famosa Venere, o dalle
caverne di Laussel in Francia, o da altri
posti, ha sempre fattezze femminili. Altri reperti con queste
indicative caratteristiche sono stati portati alla luce nelle steppe
russe, nella valle dell'Indo, nell'Asia centrale e nel bacino
Mediterraneo. Rappresentano la più antica forma d'arte e le prove
archeologiche più ricorrenti sul mondo antico. Fra questi muti
testimoni di pietra la figura maschile appare rarissimamente o è del
tutto inesistente.
Queste
figurine femminili sono stranamente attraenti.
"Personalmente
sono
sempre rimasto particolarmente colpito dalla cosiddetta Venere di Willendorf",
scrive Wolfgang Lederer (psichiatra e
psicanalista viennese che si è trasferito
negli Stati Uniti nel 1983), in Ginofobia
(Feltrinelli 1973). "In
effetti non era proprio una tipica bellezza, neanche per la
Vienna fra le due guerre, dove le rotondità erano più apprezzate che
nell'America odierna. Nessuna delle gaie signore amanti della buona
tavola… aveva la stessa massa adiposa o se ne avvicinava anche
lontanamente. Ma nessuna di loro aveva
la medesima compostezza. Nell'inclinazione
della testa, dalla accuratamente pettinata, nelle braccia graziose
gentilmente ripiegata sugli smisurati seni penduli mi sembrava di
scorgere un'espressione di sereno orgoglio; nei rotoli increspati
di grasso sopra la pancia e i fianchi, nelle natiche e cosce
enormi, una forte determinazione; in quell'atteggiamento
completamente assorto, un grande senso di sicurezza".
"Fra
tutte
le statue che ho visto",
osserva Lederer, "mi
è sembrata l'unica capace di stare in qualunque luogo:
imperturbabile, distaccata. Non ha bisogno di
volto: tutto quello che conta in questo mondo non sembra stare
attorno, ma dentro di lei".
Di
queste statuette ne esistono diverse e sono analoghe. Hanno in comune
la nudità, le elaborate pettinature, gli
ornamenti, l'enfatizzazione delle dimensioni delle fonti
della vita ossia il seno e
la zona pubico-genitale. Alle volte si
ricorre alla stilizzazione, come nelle Cicladi
e in Anatolia, con la quale la figura femminile viene
sintetizzata in un basamento rialzato scolpito nel marmo. Ma
comunque tutte le immagini, siano stilizzate siano realistiche al
massimo, esprimono con estrema potenza la stessa interiorità e
autosufficienza.
Queste
donne erano dee, afferma con sicurezza lo studioso, e per un arco
di
tempo cinque volte più lungo di un'epoca storica - e molto
più a lungo di qualsiasi altra divinità - sono state le sole ad essere
venerate.
E'
da notare, per capire l'idea di potenza femminile che viene
introiettata dal maschio, che in genere queste figure non hanno piedi:
sono di terra e piantate nella terra, fermate nell'atto di sorgere: è
la nascita dalla grande matrice, matrici a loro volta. Questi
simulacri venivano adorati nelle caverne
naturali o nelle fessure della terra, o in caverne costruite dall'uomo
che erano templi bui ottenuti ammassando le une sulle altre enormi
lastre di pietra (caverne, buio, anfratti sono chiari simbolismi con i
quali il maschio primitivo esprime la sua tremante reverenza nei
confronti del mistero della nascita, quel mistero custodito nel corpo
di questa sua compagna che ha un potere tanto più grande del suo).
Il
potere di generare, di nutrire, di popolare il mondo identifica la
donna con la terra, con la quale ha in comune sia il potere di
generare sia l'imprevedibilità catastrofica che
fa parte del ciclo di momenti evolutivi ma che l'uomo definisce con il
termine crudeltà.
La Terra dunque, con tutta la sua potenza, è il femminile, l'origine,
il principio dell'umanità, la Grande Dea dalla quale discende ogni
cosa.
"Certo
questa
è una costruzione maschile"
come afferma Ida Magli (e con lei Simone di Beauvoir
ed altre autrici di indubbio valore). Ma
a questo punto sorge una legittima domanda: perché l'uomo non ha messo
sé - già in quei lontani tempi - al centro dell'universo nel ruolo del
Grande Dio fecondo, custode dei grandi misteri?
MATRIARCATO,
CHE INCUBO…
Nella
mitologia dell'antico mondo greco troviamo le figure di dei potenti,
bellicosi, capricciosi, libertini, litigiosi, vanitosi, caratterizzati
da comportamenti infantili o adolescenziali, nei quali il maschio ha
riprodotto, inconsciamente o no, il proprio modo di vivere la vita. Ma
all'inizio di questa progenie che è uscita dalla retta via
egli colloca la Grande Madre, la Grande Dea. Dal Caos primordiale
nasce infatti Gea,
la Grande Madre Terra la quale partorisce, senza bisogno di connubio
alcuno Urano (il cielo), Ponto (il mare)
ed Eros, (cioè l'amore creatore della vita).
Col
tempo a Gea vengano
dati caratteri meglio definiti e diventa così la madre di tutti gli
esseri viventi e, insieme, del mondo sotterraneo nel quale essi,
compiuto il loro ciclo, vanno a finire.
L'incubo
del matriarcato viene espresso anche nel
mito delle Amazzoni (nell'immagine sopra) nel quale accanto al potere,
alla forza magica, appare anche la crudeltà, primo segno di una
trasformazione del timore in vero e proprio terrore. Le Amazzoni
costituivano una popolazione residente in uno stato della regione del
fiume Termodonte, sulla costa meridionale
del Mar Nero. Erano governate da regine (la più grande delle quali fu
Pentesilea) e il potere era interamente in
mano loro; gli uomini erano ridotti al rango di schiavi, considerati soltanto
come riproduttori e resi inabili all'uso delle armi, uso riservato
alle sole donne che, per poter meglio maneggiare l'arco, sottoponevano
al taglio di uno o di ambedue i seni (da qui il nome: a-mazos,
senza seno). Secondo la leggenda queste donne, a parto avvenuto,
uccidevano (o accecavano, secondo altre versioni) i figli maschi.
Eva
Cantarella, docente di diritto romano
all'università di Parma, ricorda il meno noto mito delle Lemnie.
Queste avevano dei mariti "ma
avendo offeso Afrodite, erano state punite dalla dea: colpite da
un terribile cattivo odore (dysosmia)
erano state rifiutate dai loro uomini, rifugiatisi tra le braccia
di giovani e più piacevoli schiave tracie.
Le Lemnie
allora, per vendicarsi, avevano sgozzato tutti maschi dell'isola, e
da quel momento Lemno
era diventata una comunità di sole donne, governata dalla vergine Ipsifile.
Un giorno, però sulla nave Argo era arrivato Giasone ed era stata la
fine del potere femminile. Gli
Argonauti
si erano uniti alle Lemnie
(il cui cattivo odore era scomparso nel momento in cui avevano
accolto gli uomini); Giasone aveva sposato la regina Ipsifile…"
(da L'ambiguo malanno
- Editori Riuniti).
Ma
vediamo di leggere con un minimo di attenzione i fatti, avverte
l'autrice. Innanzitutto sia le Amazzoni che
le Lemnie erano donne crudelissime, le Lemnie
addirittura selvagge al punto i divorare "carne cruda". Sia le
Amazzoni sia le Lemnie, inoltre, erano
comunità di sole donne: in nessuno dei due racconti, quindi, le donne
regnano su una società normalmente composta di uomini e donne. E per
di più, se il regno delle Amazzoni è indeterminato nel tempo, quello
delle Lemnie è ristretto a un periodo per
così dire patologico della vita del gruppo e come tale destinato a
sparire non appena, con gli uomini, si presenta la possibilità di
tornare alla normalità.
"Anziché
rappresentare un momento di potere matriarcale",
commenta la Cantarella, "questi
miti sembrano insomma voler esorcizzare l'idea di un eventuale
potere femminile.
E di recente, del resto, sono stati oggetto di
interpretazioni ben diverse
da quella ottocentesca, che su di esse fondava una ricostruzione
storica. Il mito delle Amazzoni in particolare è stato letto come la
rappresentazione mostruosa, fatta dai greci, di un mondo barbaro e
selvaggio, opposto alla cultura: non a caso, quindi, composto da
sole donne".
Il
mito delle Amazzoni sembra essere quello più suggestivo,
fra quelli elaborati dalla fantasia dell'uomo, proprio perché è il più
estremizzato e il più esemplare. Tale è la sua efficacia e la sua
ricorrenza nelle citazioni storiche da sfiorare la possibilità di
assurgere alla dignità di momento storico reale. Man mano che il tempo
passa il mito si arricchisce, le deduzioni, che scaturiscono da
flebili indizi rinvenuti nei territori studiati dall'archeologia
vengono portate nelle discussioni come elementi a sostegno della causa
di santificazione storica.
A
questo proposito Lederer fa notare che
recentemente è stata fatta l'ipotesi che
il nome Amazzoni derivi dall'armeno e significhi Donna-Luna. La
definizione deriverebbe dal fatto che queste donne sarebbero state
sacerdotesse armate dalla Dea Madre, che porta la Luna come emblema.
Secondo questa nuova ipotesi le Amazzoni si impadronirono
di gran parte dell'Asia Minore e del Nord Africa e fondarono le città
di Efeso, Smirne, Cirene e diverse altre.
La
loro regina Lisippe stabilì che anche
agli uomini toccasse sbrigare le faccende domestiche mentre le donne
combattevano e governavano. Venivano perciò fratturate le braccia e le
gambe ai bambini perché non fossero poi in grado di viaggiare e
battersi in guerra. Queste donne "anormali" non rispettavano né
giustizia né pudore ma erano stupende
guerriere e per prime usarono la cavalleria (la zona d'origine delle
Amazzoni, le steppe della Russia meridionale, era ed è regione di
cavalli). Secondo una delle versioni venute ad arricchire la leggenda
le Amazzoni delle montagne del Caucaso si sarebbero accordate
con un popolo maschio confinante, i gargarensi,
per ritrovarsi ogni primavera sulla sommità della montagna che
separava i due territori e trascorrere due mesi assieme,
abbandonandosi a promiscui amplessi nel cuore della notte.
Non
appena un'Amazzone si rendeva conto di essere incinta faceva ritorno
al proprio territorio per rientrare nella sua casa. Dopo il parto tra
i piccoli nati veniva fatta la selezione:
le femmine diventavano amazzoni ed educate all'esercizio del potere e
delle armi, i maschi venivano affidati ai gargarensi
- e questa è un'altra delle ipotesi, in contrasto con la precedente -
i quali, non potendo stabilire con esattezza la paternità, non
facevano altro che distribuire i piccoli a caso nelle varie capanne.
In
quest'ultima e più estesa versione del mito traspare più chiaramente,
attraverso nuovi e più precisi particolari, la proiezione della paura
dell'uomo sulla figura femminile, una paura che ingloba il timore
dell'abbandono, della sopraffazione e del conseguente annullamento.
Il
fatto che le Amazzoni vivessero senza il maschio dopo averlo strumentalizzato,
e reso impotente in senso lato, è indicativo. I greci ne hanno una
paura folle e i loro racconti dicono che queste terribili femmine
"lottano contro gli uomini, uccidono gli uomini,
sono divoratrici di carne, avide di guerra".
Paura
spiegabile se si considera il fatto che -
sempre ricordando che siamo sul territorio della deduzione storica - a
quell'epoca le Amazzoni disponevano di una cavalleria che travolgeva i
nemici con furiose e fulminee cariche dall'effetto devastante mentre i
greci combattevano ancora appiedati: non solo, si pensa che questo
popolo di donne conoscesse già il ferro e le sue applicazioni belliche
mentre i greci erano ancora fermi al bronzo. Immaginabili
gli effetti di una battaglia in queste condizioni di netta
inferiorità. Dalla leggenda - o c'è un filo di verità? - si
evince che i diversi nemici quando combattevano contro le Amazzoni
dovevano affrontare non solo l'avversione biologica e inconscia a
battersi contro le donne, ma dovevano fare i conti anche con la
propria profonda paura della castrazione. Probabilmente a causa delle
esperienze con le Amazzoni --osserva Bernice
Schultz Engle
in Le Amazzoni e l'antica Grecia
- "gli uomini greci sembrano aver perennemente paura di essere
sopraffatti e di perdere i propri privilegi ad
opera delle donne. Le donne, d'altra
parte, dimostravano grande crudeltà nei confronti degli uomini ma
anche nei riguardi dei bambini".
Quest'ultima
annotazione sulla crudeltà delle donne può essere spiegata come una
forma di vendetta obliqua nei confronti dell'uomo greco che aveva praticamente
ridotto in schiavitù la donna riducendola al rango di sottoproletaria
priva di diritti civili.
Dov'è
dunque, a prescindere dalla mitologia, la radice di questa protostoria
che manda ai posteri l'idea della donna come detentrice del potere?
Secondo
Lewis Mumford, autore de La
città della storia (Editrice Etas
Kompass), nell'antica società neolitica,
prima dell'introduzione dei cereali, l'egemonia della donna è
assoluta. Il sesso s'identifica allora con il potere. E questa non è
soltanto un'immagine poetica intensificata dalla libidine… il
contributo femminile all'educazione dei bimbi e alla cura delle piante
aveva trasformato l'esistenza ansiosa, preoccupata e apprensiva del
primitivo in una vita di previsione ragionate, con sufficienti
garanzie di continuità e non più interamente soggetta a forze
superiori alle capacità di controllo dell'uomo… la donna neolitica
aveva tante ragioni di essere fiera del proprio contributo quante ne
ha quella dell'epoca nucleare di tremare per il destino del proprio
mondo e dei propri figli.
Le
parole "casa" e "madre"
si inscrivono in ogni fase dell'agricoltura neolitica e inoltre nei
nuovi villaggi, grazie alle fondamenta delle case e delle tombe. E' la
donna che maneggia il foraterra e gli altri strumenti primitivi per
smuovere il terreno; e lei che si occupa dell'orto e compie quei
capolavori di selezione e di incrocio che
trasformano specie selvatiche in varietà domestiche prolifiche nutrientissime.
Dominato dalla donna, il periodo neolitico è soprattutto un'epoca di
recipienti: un'età di utensili di pietra e di terracotta, di vasi,
giare, tini, cisterne, bidoni, fienili, granai e case e di grandi
involucri collettivi come i canali di irrigazione
o
i villaggi.
Mentre
l'uomo caccia, sviluppando sempre più la sua forza muscolare nel
confronto con animali più forti e affinando il suo cervello unidirezionalmente,
la donna si confronta con una serie di problemi connessi in mille modi
alla conservazione della vita oltre che alla "produzione" di questa.
Anche
il villaggio, quindi, è fondamentalmente una sua creazione, essendo un
rifugio collettivo per proteggere e allevare i figli, conservare le
scorte, garantire un sereno riposo al gruppo. Qui la femmina
contribuisce a prolungare il periodo dell'infanzia e dei giochi sereni
dal quale dipende tanta parte della vita
successiva dell'uomo e della prole in genere. La presenza della donna
si fa sentire in ogni componente del
villaggio, comprese le strutture fisiche, con quei recinti protettivi
il cui significato simbolico è stato ora rilevato, con molto ritardo,
dalla psicoanalisi. Sicurezza, ricettività, bisogno di protezione,
educazione: tutte queste funzioni riguardano la donna e assumono
un'importanza fondamentale.
Casa
e villaggio, e in un secondo tempo anche le città, sono in gran parte
opera femminili. Questa naturalmente può
apparire una suggestiva ma arbitraria
ipotesi psicoanalitica ma la teoria viene confermata dagli antichi
egizi che nei due geroglifici indicanti "casa" e "città" inglobavano
anche il significato "madre", per esprimere il parallelismo della
funzione individuale e collettiva. La teoria è confermata ancora dal
fatto che le strutture più primitive (case, stanze, tombe) sono
rotonde e convesse come la copia originaria, descritta dalla mitologia
greca, che viene modellata sul seno di
Afrodite.
Quando
ha inizio la "lotta di classe" che capovolge la situazione e porta
l'uomo al potere e dà inizio all'epoca del patriarcato che ridurrà la
donna in posizione più o meno subordinata?
I
primi segni indicativi li ritroviamo come sempre, nelle varie
mitologie. Restiamo nell'ambito di quella greca. Ne
"Le Eumenidi" Eschilo narra che Oreste,
figlio di Clitennestra rea di aver
assassinato il marito Agamennone, vendica la morte del padre uccidendo
la madre. Accusato dalle Erinni - che simboleggiano il matriarcato in
dissoluzione - egli si difende:
"Quando
mia madre era in vita perché non siete discese in Terra a
perseguitare e scacciare lei?
Rispondono
Le Erinni che l'uomo ucciso da Clitennestra
non le era consanguineo.
"E
io allora" risponde Oreste, "sono legato a mia madre per vincoli di
sangue?"
"Assassino
sei difatti. Come
avrebbe ella potuto altrimenti portarti e
curarti sotto il suo cuore? Rinneghi forse l'intimo sangue di tua
madre?"
Per
risolvere la vicenda Oreste chiede soccorso ad Apollo, che rappresenta
il nascente sistema patriarcale. Il Dio risponde:
"Nella
mia risposta ti dirò il vero.
La madre non è genitrice di quel che si dice figlio suo, bensì
soltanto la depositaria tutelare del seme appena piantato e
destinato a germogliare. Genitore è colui
che la cavalca. invece,
estranea, preserva il seme dell'estraneo, quando nessun dio
s'intrometta. Ti Elladarò
la prova di quanto ti ho spiegato. Può esservi un padre anche senza
una madre. Ecco la testimone vivente, figlia di Zeus Olimpio, colei
che mai fu accolta nelle tenebre di un grembo, figlia che pure mai
nessuna dea avrebbe potuto dare alla luce…
La
figlia alla quale fa riferimento Apollo è Atena, nata dalla testa di
Giove, già adulta, piena di forza e armata di tutto punto (elmo, asta,
scudo ed egida) pronta a difendere il padre dai suoi nemici sia con le
armi sia con la propria saggezza, la prudenza, l'accortezza, sue doti
speciali. (Ma da questa nascita ci si rende conto come l'immaginazione
dell'uomo continui a trovare enormi
difficoltà nel tentativo di liberarsi dal culto del femminile e quindi
del proprio stato di subordinazione).
L'inizio
del sistema patriarcale, nelle varie mitologie, non è databile perché
il momento è direttamente connesso agli inizi e ai tempi di sviluppo
delle varie culture locali. Vediamo comunque che il matriarcato viene
sottoposto ad assalti sempre più violenti man mano che il tempo
trascorre e l'uomo scopre che può usare la propria forza, impiegare la
stessa violenza che usa nella vittoriosa lotta contro gli animali, per
strappare il potere dalle mani della donna.
Uno
di questi assalti viene ricordato nella
lontana storia degli Ona, una popolazione
della Terra del Fuoco estinta nel 1925 dopo essersi ridotta a una
sessantina di individui. Si narra che i maschi Ona,
dopo essere vissuti troppo a lungo nel terrore e in completa
soggezione nei confronti delle loro donne e della capacità magica
femminile di compiere i più diversi "prodigi", siano arrivati a
elaborare, per affrancarsi da questo dominio, un piano che li avrebbe
emancipati definitivamente. Il piano era simile a quello pensato
alcuni decenni orsono da Adolf Hitler per risolvere la cosiddetta
"questione ebraica" : contemplava la
"soluzione finale", lo sterminio totale dell'odiato nemico. Sulla
base di questa idea gli Ona
uccisero tutte le donne dotate di "poteri magici", cioè tutte le donne
adulte, per organizzare poi una società "magica" di soli uomini. Dopo
questa "rivoluzione" le donne giovanissime (inesperte per quanto
riguardava l'esercizio della magia e del potere e quindi per questo
risparmiate dal bagno di sangue) si sottomisero automaticamente al
potere maschile.
Anche
nella cultura della Grecia antica, la donna viene
ridotta in un ruolo del tutto subalterno, praticamente in
semi-schiavitù, anche se il mezzo che porta a questo cambiamento di
ruoli non è costituito dal massacro ma da una legislazione ad
hoc.
Il
maschio ha vinto, apparentemente non ha più paura della donna, anzi,
la disprezza profondamente, violentemente (tanto violentemente da
destare il sospetto che quella paura sia ancora conficcata nel
profondo della sua anima). Esiodo, il primo poeta della Grecia
neo-patriarcale, così scrive:
"Colui
che si affida a una donna si
affida a un ladro"
Aristotele,
mostro sacro della filosofia del tempo, esprime l'opinione comune
quando afferma che la donna è donna in
virtù di un difetto e quindi deve vivere rinchiusa nel focolare e
subordinata all'uomo.
"Lo
schiavo
è completamente privo della libertà di deliberare; la donna la
possiede ma in modo debole e inefficace".
Il
povero Platone, collega di Aristotele, viene
travolto dalla beffe del solforico commediografo Aristofane quando osa
proporre di immettere un consiglio di matrone nell'amministrazione
della cosa pubblica e di dare un'educazione libera alle ragazze. Le
idee di Aristofane sulla condizione femminile appaiono chiare quando
nella "Lisistrata" la famosa commedia
rappresentata nel 411 avanti Cristo, alla moglie che interroga il
marito sugli affari pubblici dà questa risposta:
"Non
ti riguarda.
Taci o ti prendo a schiaffi. Tessi
la
tua tela".
Viene
spontaneo ricordare che questo tipo di risposta non era ancora uscito
dal costume odierno, almeno non del tutto.
Non
è da meno Pitagora, un altro dei grandi della scienza greco-antica,
che interviene con tutto il peso della sua autorità di fisico-matematico-filosofo.
"C'è
un
principio buono", dice
solennemente, "che
ha reato l'ordine, la luce e l'uomo, e un principio cattivo che la
creato il caos, le tenebre e la donna".
Nell'epoca
romana la donna riesce a recuperare dignità e libertà, ma sempre entro
i limiti di una società dominata interamente dal maschio. Ha nelle sue
mani il governo della casa, l'educazione dei figli, ha il diritto di
uscire e di esprimere opinioni, presiede il lavoro degli schiavi, può
recarsi alle feste e a teatro, per la strada i passanti, siano uomini
di semplice grado o consoli e littori, le cedono rispettosamente il
passo. Tuttavia, pur avendo conquistato diritti
ancor più consistenti nel corso del tempo, anche la donna romana,
inchiodata dal giure al concetto della "fragilitas"
resta sempre sottomessa al volere del "paterfamilias".
Ma
l'attacco durissimo - che esprime un ritorno di paura più grave di
altri viene dal porto-cristianesimo, un attacco che vede la figura
della dona demonizzata in modo esasperato,
violento a tal punto da lasciarci profondamente perplessi considerati
i presupposti di mitezza e di rispetto umano contenuto nella
predicazione di Cristo.
San
Paolo si dimostra ferocemente antifemminista, prescrive alle donne
umiltà, contegno, totale subordinazione all'uomo. Egli
afferma con solennità: "L'uomo
non è stato tratto dalla donna ma la donna dall'uomo: e l'uomo non è
stato creato per la donna ma la donna per l'uomo".
E perché non ci siano equivoci ribadisce:
"Come
la Chiesa è sottomessa al Cristo, così le donne siano sottomesse in
ogni cosa al marito".
Quinto
settimo Tertulliano, che prima della
conversione al cristianesimo passa attraverso un'educazione classica e
diventa un giurista di valore, scaglia contro la "maledetta femmina"
arringhe feroci. Un esempio:
"Donna,
tu sei la porta del diavolo.
Tu hai persuaso colui
che la donna non osava
affrontare. Per colpa tua il figlio di Dio ha
dovuto morire; dovrai
andartene sempre vestita di stracci luttuosi".
Dal
canto suo Sant'Ambrogio
tuona, armato di una logica quantomeno discutibile:
"Adamo
è stato condotto al peccato da Eva e non Eva da Adamo.
È giusto che la donna accolga come padrone chi ha indotto a peccare".
San
Giovanni Crisostomo iperbolizza:
"Fra
tutte
le belve non se ne trova una più nociva della donna".
L'attacco
misogino raggiunge il vertice massimo con Sant'Agostino, che impiega
tutta la sua autorità per ottenere l'annullamento dei "mostri":
"La
donna
è una bestia che non è né ferma né stabile… È nutrice di cattiveria
ed è il cominciamento di tutte le piaghe, e trova la via e il sentiero
gli ogni malvagità".
Nei
"Soliloquia", composti attorno al 387, il
dottore della Chiesa (che in passato si era goduto
una vita amorosa piuttosto vivace dalla quale aveva avuto anche un
figlio) scrive che "non
c'è
nulla
che io debba fuggire più del talamo coniugale, niente getta più
scompiglio nella mente dell'uomo delle lusinghe della donna, e del
contatto dei corpi senza il quale la sposa non si lascia possedere".
Travolto dalla sua ginecofobia
il santo parla con orrore persino del sublime momento della nascita,
il momento più poetico della natura: "Iter
urinam
et
faeces
nascimur".
L'esito
di questa "crociata" contro il mondo femminile è vittorioso. Per un
periodo la donna vive in modo quasi abbietto. Ma a poco a poco riconquista
terreno. Il suo potere è trasversale, obliquo, dissimulato,
"rispettoso" del principio di sovranità del
maschio, ma all'osservatore obiettivo si rivela in tutta la sua
importanza e la carica positiva, vitale. Quando il Medioevo esce dal
suo periodo più buio lo storico può
constatare che mentre il patriarca si dà alla soluzione dei problemi
di vario tipo (da quello economico a quello territoriale fino a
giungere al conflitto religioso) ricorrendo alla guerra, a massacri e
crudeltà di ogni genere, la donna svolge nuovamente con il suo
millenario senso della realtà - il "senso della vita" - il ruolo di
pilota di quella comunità che il "prode Anselmo" ha abbandonato a se
stessa.
Chiede
con garbata provocazione Eileen Power,
grande medievalista, docente di storia economica alla London School
of Economics.
"Nel
tempo che il signore passava alla corte o in guerra, chi si occupava
del castello e glielo restituiva al suo ritorno con le mura
riparate, il lavoro dei campi eseguito e le questioni giuridiche
risolte?
E se il signore cadeva prigioniero, chi raccoglieva il riscatto,
cavando ogni soldo possibile dalla proprietà, annoiando gli
arcivescovi con le suppliche, vendendo l'argenteria di famiglia? E
quando disgraziatamente il signore veniva
ucciso, chi si faceva esecutrice del
testamento e ne cresceva i figli?"
"La
risposta
a tutte queste domande
fa rilevare la Power, "in
nove casi su dieci è: sua moglie. Essa doveva essere pronta a prendere
ll suo posto in ogni momento, fosse la
regina reggente o un'oscura gentildonna del Norfolk… La signora doveva
essere esperta nelle finezze del comando e della legge medievale nel
caso prevaricasse sui diritti del signore: doveva conoscere tutto
dell'arte di condurre delle terre in proprietà in modo da controllare
il balivo (il balivo era un funzionario di nomina regia, a capo di una
circoscrizione territoriale, che avrebbe potuto commettere, ai danni
dei feudatari, il reato che oggi viene definito interessi privati in
atti d'ufficio n.d.r.) e doveva conoscere
il suo mestiere di padrona di casa ed essere capace di pianificare le
spese con accortezza" (Da Donne
del Medioevo - Ed. Jaca Book).
Ottime
"matriarche" - le virgolette sono obbligatorie visto che non si
trattava di un potere totale, ma va messo in
evidenza che queste donne finivano per avere di fatto potere
assoluto sui membri della famiglia e dell'azienda, maschi compresi -
furono le vedove degli artigiani e commercianti inglesi che,
specialmente a Londra, si trovarono a gestire gli affari dei mariti
(come consentiva il regolamento delle corporazioni).
Racconta
Elione Power, che per condurre affari
di una certa importanza "occorreva
un non piccolo bagaglio di conoscenze e abilità.
Nel 1370 Alice, ultima moglie di John di Horsford,
reclamò davanti alla sede delle corporazioni di Londra la proprietà
di una metà di una nave… che era stata
dichiarata dal balivo di Billingsgate
proprietà di qualcun altro. Fornì prova del suo titolo e la corte
ordinò che le venisse
riconosciuta la proprietà. Alla vedova di un altr
mercante, Margaret Russel
di Coventry, fu rubata merce per il valore di 800 sterline da certi
tipi di Santander
in Spagna e ottenne lettere potenti per l'autorizzazione a prendersi
beni appartenenti a spagnoli in misura tale da indennizzarsi; sembrò
in seguito che lei si fosse presa più del dovuto e gli spagnoli la
querelarono a loro volta".
Senza
voler stabilire primati che potrebbero apparire non gradevoli, corre
obbligo di sottolineare che la ricerca che
ha seguito con attenzione la storia della donna ha dimostrato che
questa ha gestito, e gestisce, il potere, con capacità, sagacia e
accortezza tali da dimostrare il suo pieno diritto a governare la
società ed a partecipare al suo sviluppo in ogni settore e livello su
un piano di perfetta parità con l'uomo.
Il
Rinascimento italiano, che è un'epoca nella quale l'individualismo
domina beneficamente, è il momento favorevole al fiorire di
personalità forti, senza distinzione di sesso.
E
proprio in questo periodo si ha una dimostrazione delle grandi
capacità della donna di competere con
l'uomo e di tenergli testa e, più spesso di quanto piaccia all'uomo,
di batterlo. In questo arco di tempo
emergono sovrane che sanno reggere più o meno grandi stati o feudi con
accortezza, equilibrio e sanno dare prova di un acume politico e
diplomatico ammirevole: troviamo nome come quelli di Giovanna
d'Aragona, Isabella d'Este, Giovanna di Napoli. Ci sono donne che
sanno prendere in mano le armi come gli uomini: la moglie di Girolamo
Riario lotta per la libertà di Forlì; Ippolita
Fioramenti comanda le truppe del duca di
Milano e durante l'assedio di Pavia guida sugli spalti una compagnia
di donne; i Senesi, per difendere la loro città contro Monteluco,
hanno l'aiuto di tre schiere formate da tremila
donne ciascuna, e al comando di ogni gruppo c'è una donna.
Altre
donne dimostrano grandissimo talento nel campo della cultura: basti
citare la poetessa Gaspara Stampa e
Vittoria Colonna, anche lei poetessa, amica di Michelangelo Buonarroti
che spesso dipende dal suo consiglio. Non dimentichiamo inoltre le
milioni di donne che, da posizioni meno evidenti ma non meno
importanti, hanno dato in tutti i tempi un contributo determinante ai
problemi della vita quotidiana, alle grandi rivoluzioni come quella
cristiana (nei circhi romani molte erano le donne che venivano
martirizzate e date in pasto alle belve), ai grandi movimenti per
diritti civili (quante sono state le donne uccise durante la battaglia
che esse hanno fatto per la conquista del voto e della parità
dimostrando una incredibile forza d'animo?).
Che
dire poi dei grandi e suggestivi nomi come
quelli di Elisabetta d'Inghilterra, Isabella la Cattolica, Caterina di
Russia, Cristina di Svezia, regine di grande personalità e grandi
matriarche che governano con eccezionale abilità una società in tutto
e per tutto patriarcale? Una incongruenza?
Certamente.
Ma
una incongruenza dalla quale si può trarre
la previsione, quanto vicina o quanto lontana è difficile dirlo, di
una conquista del potere da parte della donna. O di una riconquista.
***
Dal
sito Brigantino-Il
Portale del Sud-Il sito
del Pensiero Meridiano http://www.ilportaledelsud.org
, 23 Settembre 2013 dc
Dal
Matriarcato
al Patriarcato
Viaggio
attraverso
il Mito e il Teatro Tragico Greco
di
Rosa Casano Del Puglia
Fin
dal Paleolitico, l’insopprimibile esigenza umana di ricercare un
“Principio”, che desse ragione del mondo, del mistero della vita... ebbe
come esito la creazione di un archetipo "femminino", una divinità
onnipotente, onnisciente che crea da se stessa, una Grande Madre, dea
senza volto simbolo della terra, della fertilità della donna e dei
campi, dell’eterna palingenesi del ciclo delle
stagioni.
Raffigurata
con simboli radicati profondamente nell’inconscio collettivo, la Grande
Madre ha ispirato la realizzazione di numerosissimi manufatti: “le
Veneri del Paleolitico", rinvenute in tutta Europa, preziose
testimonianze di un passato dell’umanità inconcepibilmente remoto. La
dea è raffigurata quasi sempre gravida, i
tratti iconografici ne enfatizzano gli attributi sessuali, a volere
sottolineare quel potere che solo a lei appartiene: dare la vita.
Probabilmente
il culto della Grande Madre nacque in società che sentivano un mistico
senso di appartenenza alla natura, e dove mentre gli uomini si
dedicavano alla caccia, le donne raccoglievano frutti, radici, piante
commestibili per sfamare la comunità, acquisendo con l’esperienza una
serie di conoscenze su luoghi, tempi e modalità
di crescita di alcune piante (il riso, il grano) sui loro poteri
curativi o velenosi, tramandando così da madre in figlia quelle
conoscenze che poi diventarono patrimonio comune del gruppo.
A
partire dal Paleolitico tutti i popoli mediterranei
hanno lasciato tracce del culto della Grande Madre, considerata,
nell’arco di questi millenni, partenogenica,
capace di generare la vita da se stessa. La Grande Madre è Signora dello
spazio nella sua totalità cielo –terra –acque (il dio maschile proprio
delle società patriarcali sarà solo Signore del Cielo), Signora del
Tempo, presiede infatti, al ciclo della
nascita – vita – morte –rinascita, Tessitrice, quindi, della vita
vegetale ed umana. (Ancora oggi chiamiamo
“tessuti” una parte fondamentale del corpo umano. Omero chiama le dee
greche del fato “klotes” vale a dire
filatrici.) Più tardi, nel Neolitico, con la scoperta fondamentale
dell’apporto maschile nella creazione della vita si assiste ad
una rivoluzione epocale, testimoniata dalla comparsa del dio della
vegetazione: “il paredro” della grande dea,
dio maschile che nasce e muore annualmente. Siamo attorno al V
millennio, in quest’epoca si comincia a celebrare con veri e propri riti
la nascita e la morte umana e vegetale. Proprio nei Misteri eleusini,
sicuramente il culto misterico più affascinante dell’antichità,
attestato nelle fonti del VII secolo, ma la cui fondazione si può fare
risalire al XV sec, al periodo minoico –miceneo, il “paredro”,
quel dio maschile, spirito della vegetazione e dio stagionale era
destinato ad essere sacrificato, per cedere il posto, l’anno successivo,
ad un dio più giovane.
Dunque
col passare dei millenni, in età neolitica, la Grande Madre si
trasforma, si accompagna al suo “paredro”e
assume valenze simboliche nuove, adattandosi alle esigenze dei gruppi
umani divenuti ormai stanziali. Ora, La troviamo
rappresentata o come le precedenti Veneri paleolitiche, o più spesso con
tratti iconografici nuovi come Signora degli animali,, delle Tenebre,
della Luce, del Giorno, dei leoni etc. In Asia Minore è “Potnia
Theron” (nell’Iliade, Artemide viene
chiamata Signora delle belve, XXI, vv. 470
ss), in Frigia è Cybele, per gli Etruschi
era Uni etc. Nel Mediterraneo è soprattutto la civiltà cretese a
mostrare un legame strettissimo tra la dea e la terra; Creta, infatti,
già nel VII millennio, era abitata da agricoltori che, anche se usavano
ancora aratri di pietra, conoscevano la coltura dei cereali, introdotta,
più tardi, nel resto della Grecia da Demetra, dea delle messi figlia
della cretese Rhea.
Ma
qual è il significato del compagno stagionale della Grande Madre il “paredro”?
Il
termine paredro significa “che siede
accanto”; nell’antica Grecia, indicava il coadiutore degli arconti.
Nella dimensione religiosa l’abbiamo ritrovato come un dio minore
destinato al sacrifico, ma quello che più
interessa, in questa sede, è il paradigma sociologico e sotto questo
profilo, illustri studiosi quali Bachofen,
Neumann, Schreiber
ed altri ancora concordano nel ravvisare nel binomio Grande Madre – Paredro
quel lungo periodo della storia dell’umanità, durante il quale si
verificano i primi scontri, che col passare dei millenni e con le
invasioni di popoli indoeuropei, segnarono la fine delle società
matrilineari.
Bachofen,
storico svizzero, analizzando le culture tribali ginecocratiche
e diversi miti greci ha formulato l’ipotesi che
un momento reale della storia dell’Occidente, identificabile nel
Paleolitico, sarebbe stato caratterizzato da un’organizzazione sociale
matriarcale, nell’ambito della quale alle donne sarebbe spettato il
potere familiare, politico e religioso.
Questa
tesi, condivisa tra l’altro da autorevoli storici ed
archeologi, ha trovato conferme, oltre che in numerosi rinvenimenti
archeologici, nella lettura, in chiave sociologica, dei miti e del
teatro tragico greco. I miti non possono in alcun modo essere
riconducibili ad un mondo fantastico,
essendo per certi versi storia, nel senso che rappresentano il
patrimonio di valori, le idee che i nostri lontani antenati avevano del
loro passato; “i miti sono un adombramento della storia”, scriveva G. B.
Vico.
Stando
a queste fonti dirette e indirette, pare che la frattura tra matriarcato
e patriarcato vada ricercata tra il 3500 e
il 2500 e sia stata causata da massicce invasioni di popoli indoeuropei
giunti dall’est, in seguito alle quali le società matriarcali, tipiche
delle società agricole, furono soppiantate da una cultura di tipo
maschile basata sulla guerra, sulla caccia e su un’economia predatoria.
La cultura indoeuropea, già nel V millennio, nella zona del Volga
presentava la fisionomia di una società patriarcale, fatta di guerrieri
e interessata più alla caccia e alla guerra come attività economica di predazione
che all’agricoltura. Nel II millennio quella cultura dilagò nell’Europa
danubiana, nel vicino Oriente, nell’area dell’Egeo. Parti, Medi, Achei,
Persiani, Dori adoravano dei maschi violenti e litigiosi, la Grande Dea
fu soppiantata da un dio maschile rimanendo come sua consorte o molto
più spesso assumendo i caratteri negativi delle Furie, delle Arpie,
delle Meduse. Nella penisola ellenica, quel massiccio movimento
migratorio avverrà tra il 2000 e il 1000 a.C., quelle genti indicate
come indoeuropei o indoarii sconvolgeranno
gli insediamenti millenari e cancelleranno, almeno in superficie,
civiltà antichissime.
Alle
migrazioni dei popoli indoeuropei, bisogna aggiungere che con l’avvento
dell’agricoltura praticata dagli uomini, il ruolo della donna si
restringe sempre più, così col tempo la troveremo impegnata solo
nell’ambiente domestico, nella cura dei figli. Sicuramente anche
l’incremento della popolazione ebbe un peso notevole, conducendo ad
una più consistente domanda di generi alimentari e alla conseguente
necessità di coltivare campi lontani dai villaggi, difficilmente
raggiungibili dalle donne impegnate nella gestione della famiglia o del
gruppo; cos' le donne furono costrette a cedere all'uomo la gestione
delle attività produttive. Fu questo un primo passo verso la loro
millenaria sottomissione.
Il
passaggio dalle società ginecocratiche a
quelle fallocratiche si svolse in un lungo arco di
tempo e non fu privo di momenti drammatici e di autentici
scontri armati. Tracce di queste lotte di potere si riscontrano nei miti
delle Amazzoni, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nel teatro di
Eschilo e in altre fonti ancora.
I
Miti
Le
Amazzoni
Nelle
antiche fonti greche le Amazzoni sono donne guerriere, guidate da una
regina. La loro patria di origine si sarebbe trovata sulla costa
meridionale del mar Nero. Si trattava di una società matriarcale dalla
quale gli uomini erano esclusi o secondo altre fonti costretti a vivere
in schiavitù, e nella quale tutte le attività principali erano riservate
alle donne che governavano lo stato, maneggiavano le armi, combattevano
a piedi o a cavallo con lance, archi, spade per difendere il loro
territorio. Si legge ancora, che ogni anno le donne in primavera
andavano nei paesi vicini per farsi ingravidare. Secondo un’altra
versione del mito, si trattava di donne Sciite, che avevano
ucciso o cacciato i loro uomini dai quali erano maltrattate. In verità
tanti sono i miti che hanno come protagoniste le Amazzoni, più significativo,
al nostro scopo, è quello che tratta della nona fatica di Ercole, questi
si sarebbe recato in Scizia per
impadronirsi della cintura della regina delle Amazzoni, Ippolita,
e portarla ad Argo per regalarla ad Era.
In
questa spedizione l’eroe greco, accompagnato da Teseo, avrebbe rapito
una principessa amazzone, Antiope, della
quale si era innamorato. Per vendicare il rapimento
le Amazzoni marciarono contro Atene, qui si scatenò una grande
battaglia, le Amazzoni furono sconfitte e costrette a ritirarsi su una
collina, che fu poi chiamata Aeropago (la
collina di Ares). La vittoria di Teseo, nell’antica Grecia, veniva
celebrata dalla propaganda patriottica come la prima volta in cui gli
ateniesi avevano respinto gli stranieri. Secondo alcuni interpreti del
mito, le Amazzoni sono la precisa traccia di uno stato sociale e
religioso pre–ellenico, contemporaneo all’epoca
nella quale il culto della grande Dea, nella Russia meridionale ed in
Anatolia, si era sviluppato come matriarcato, con aspetti precisi di
tipo militare e politico. Le Amazzoni sarebbero pertanto fedelissime
guardie del corpo della Grande Madre anatolica.
Le
Argonautiche – La “Couvade”
Nelle
Argonautiche, Apollonio Rodio riferisce un’usanza dei Tibareni,
popolo conosciuto dagli Argonauti durante il loro viaggio in Colchide.
Una loro strana consuetudine consisteva nel simulare la maternità
attraverso la “couvade”: gli uomini
fingevano di essere madri, simulando le doglie del parto; la finalità
era quella di impadronirsi del potere
attraverso la maternità, che in ultima analisi aveva portato ad una
divinizzazione della donna adombrata nel culto della Grande Dea Madre.
Ecco cosa scrive A. Rodio: “Qui, quando le donne partoriscono figli ai
mariti / sono essi, i mariti, che si mettono
a letto e che gemono, / con il capo bendato, e le donne provvedono al
cibo/per loro e preparano i bagni rituali del parto” (Arg, vv
1011-1014).
Secondo
lo storico Bachofen, presso i Tibareni,
a prevalere nella contesa sarebbero stati gli uomini che avrebbero
imposto nuove regole, fondate sul principio della paternità e su una
religiosità maschile: sulla natura prevale la lo
spirito, sulla terra il cielo, sulla luna il sole, sulla notte il
giorno. Tutto questo porterà al superamento dell’accettazione passiva
delle leggi della natura, al rispetto delle
leggi umane, al predominio del pensiero razionale, all’obbedienza al
principio d’autorità. Non è un passaggio breve né indolore, i miti lo
riportano come un contrasto tra il principio paterno e quello materno,
la vittoria del primo è chiarissima nel teatro tragico greco, in
particolare nella trilogia di Eschilo: L’Orestea.
La
lotta tra Matriarcato e Patriarcato nell’Orestea
di Eschilo
La
genesi del Teatro Tragico Greco
L’origine
della tragedia greca è una questione ancora oggi dibattuta, alcuni
studiosi sostengono che il teatro tragico greco, le cui prime
rappresentazioni risalgono al 535 / 533 a. C., sia stato fin dall’inizio
strettamente connesso al culto di Dioniso, le cui solennità ricorrevano
3 volte l’anno, in periodo invernale. Sicuramente si trattava
di rituali propri di una civiltà essenzialmente agricola, che
considerava Dioniso patrono della fertilità dei campi. Ma Dioniso,
questo dio, che abita ancora le nostre coscienze, era anche il dio delle
orge, dei misteri, insomma un dio che simboleggiava uno spazio
psicologico, etico, sociale, religioso, luogo di “coincidentia
oppositorum”, di conflittualità
irriducibile e lacerante da cui avrebbe tratto origine il teatro tragico
greco.
Creazione
massima del genio attico, la tragedia era una rappresentazione della
realtà in tutti i suoi aspetti, da qui la necessità di leggerla
calandola nel suo tempo e di recuperare anche quella dimensione
mitologica che, in tempi ancor più remoti, abitava l’immaginario
collettivo e a cui spesso gli autori
attingono prescindendo dalla loro stessa intenzionalità. Perché, in
fondo, la tragedia greca rispecchia, in chiave mitologica, i problemi relativi
alla società pre–ellenica.
Della
funzione catartica della tragedia si era già occupato Aristotele, ma
dovremo aspettare il 1871, anno che vede la pubblicazione dell’opera di
Nietzsche: “La nascita della tragedia”, perché si aprano nuovi orizzonti
relativi alla genesi del teatro tragico
greco. Il filosofo tedesco opera infatti, una
distinzione tra spirito apollineo e spirito dionisiaco, il primo proprio
del sogno si traduce in immagini di compostezza e si esprime nelle arti
figurative, il secondo proprio dell’ebbrezza attiene alle pulsioni
sotterranee dell’inconscio, si esprime nella musica. Il senso del
tragico scaturisce, per Nietzsche, da questa conflittualità
irriducibile, lacerante presente in tutti gli aspetti della vita e delle
vicende rappresentate nel teatro greco. Così il mito di Dioniso, il dio
dal doppio volto, il dio della “coincidentia
oppositorum” costituirà il punto di partenza
per un dibattito tra umano e divino, tra androcrazia
e ruolo della donna, tra leggi della natura e leggi della polis, mondo
aristocratico e civiltà borghese in sostanza tra una serie infinita di
antinomie grazie alle quali la coscienza tragica dal mondo rarefatto
delle saghe eroiche si cala nella realtà concreta del presente.
Altre
tesi, elaborate di recente contestano la genesi dionisiaca del teatro
tragico greco, fondando la loro analisi sul significato del termine
“tragedia” che vorrebbe dire “canto del capro” o “canto per il capro”
alludendo o alle maschere caprine che indossavano i coreuti o al fatto
che il capro sarebbe stato un premio nelle gare sonore o la vittima di
un sacrifico.
Qualche
altra informazione, in merito alla nascita della tragedia greca, ci
perviene da Erodoto il quale scrive che Clistene,
nemico degli abitanti di Argo avrebbe voluto eliminare dalla sua città
il culto di Adrasto eroe argivo, onorato
con cori tragici riferentesi alle sue
dolorose vicende. Erodoto racconta della vittoria di Clistene
e della abolizione del culto di Adrasto.
Pare che le vicende dolorose di Adrasto si
adattassero bene al contenuto luttuoso della tragedia, che in questo
modo attingerebbe non al culto di Dioniso ma a quello dell’antico epos
eroico, insomma Dioniso sarebbe un intruso, il vero protagonista del
dramma tragico sarebbe un eroe. Ma quale
eroe?
Il
noto antropologo J. G. Frazer,
nel suo Ramo d’oro, scrive di
popolazioni primitive nella cui religiosità aveva un peso notevole il
culto degli antenati e degli eroi, culto che è presente anche in Grecia,
tant’è che nelle tragedie greche i coreuti erano soliti evocare il “tragos”
cioè lo spirito di un eroe defunto.
E
ancora in Grecia, come in tutte le altre comunità agricole, i cicli
delle stagioni si aprivano e chiudevano con rituali religiosi che
avevano come protagonista il “Re Sacro” o dio del grano, che provvedeva
alla fertilità della terra e degli armenti e che veniva
sacrificato annualmente o quando le sue energie venivano meno. Lo
si ritrova sempre associato a una dea, sotto cui si cela
l’antichissima divinità mediterranea la Grande Madre, rispetto alla
quale il dio del grano viveva in posizione subalterna. È chiaro, a
questo punto, che dietro il dio del grano o Dioniso o Adrasto
si cela una divinità ancora più antica: il “Paredro”
della Grande Dea, destinato a morire. Lo spirito tragico del teatro
greco, deriverebbe, secondo la scuola antropologica dal dissidio tra
religiosità mediterranea, che rimanda ad una
società agricola matriarcale e religiosità olimpica importata dagli
Indoeuropei, di tipo patriarcale che identificava il suo dio supremo col
“Padre del cielo luminoso”. Uno scontro di civiltà sarebbe dunque alla
base della nascita della tragedia greca.
Trilogia
di Eschilo – excursus
Ripercorriamo
le tappe che portarono dalla ginecocrazia alla fallocrazia, attraverso
la trilogia di Eschilo: Orestea. L’opera si
compone di tre tragedie: Agamennone, Coefore, Eumenidi.
In ogni tragedia, Eschilo affronta, in chiave mitologica, un determinato
momento di quell’iter che porterà alla società patriarcale, così nell’Agamennone
ritroviamo i riti propri del matriarcato, nelle Coefore il drammatico
momento di scontro tra le due civiltà, nelle Eumenidi
il trionfo della società patriarcale.
L’Agamennone
- l’intreccio
“Clitemnestra,
sposa di Agamennone, in assenza di costui, impegnato nella guerra di
Troia, ha governato il paese come un re, si è scelta un compagno Egisto,
col quale complotta di uccidere, al suo ritorno, Agamennone. Ritornato
quest’ultimo,
porta con sé la profetessa Cassandra che gli predice, come poi
avverrà, il suo assassinio per mano della moglie che lo colpirà
mortalmente con un colpo di ascia”.
A
Creta, prima dell’irruzione dei Micenei, che importarono dei guerrieri,
era profondamente radicato il culto della Grande Madre, la Potnia
Theron, che, a differenza della Grande Madre anatolica più che Signora
della vegetazione, era vissuta come Signora degli animali, la
si ritrova spesso accompagnata dal suo paredro:
il Signore dei tori, suoi simboli sacri erano le corna taurine o le
doppie asce, che ritroviamo spesso nei fregi e nelle decorazioni dei
palazzi.
M.
Understeiner ritiene di poter identificare
in Clitemnestra la Potnia,
mentre in Agamennone la figura del paredro
destinato a morire. A conferma di questa ipotesi è
il fatto che l’assassinio del re avviene con la sacra “labrys”
e si consuma nella vasca da bagno, riferimento ai riti di purificazione
che precedevano la morte della vittima. Il toro è la vittima sacrificale
per eccellenza, in esso si potrebbe incarnare la figura del paredro.
A conferma di questa ipotesi, sono i versi che Eschilo mette in bocca a
Cassandra, mentre fa la profezia: “Ahi, ahi Dalla vacca/ allontana il
toro / fra i pepli lo afferra, con l’arnese dalle corna nere /colpisce”
(vv 125/128) Il toro è Agamennone, la vacca
è Clitemnestra che sta per colpirlo con le
corna, ovvero il “labrys”
più volte raffigurato come l’attributo della dea cretese: la minoica Potnia,
dominatrice del mondo animale e quindi del suo paredro
maschio, il signore dei tori. Il sacrificio del dio-toro –Agamennone
rientra nelle categorie delle morti rituali del dio della
vegetazione, ed esprime il conflitto tra mondo pre–ellenico
che sta scomparendo e mondo indoeuropeo impersonato da Oreste (nella
seconda tragedia della trilogia). È significativo
anche che Cassandra, nel delirio che precede la sua morte, veda uccidere
non il re ma un toro, vittima per eccellenza del sacrificio.
Coefore
Nelle
Coefore (portatrici di doni), Eschilo narra del ritorno in patria di
Oreste, figlio di Agamennone, che per ordine di Apollo e incitato dalla
sorella Elettra, vendica il padre uccidendo la madre ed Egisto,
suo amante. Per questo delitto Oreste sarà perseguitato dalle Erinni,
antichissime dee, figlie di Gea, che in
origine difendevano i diritti della madre e tormentavano chi non
rispettava il potere materno.
Eumenidi
La
tragedia si apre con la fuga di Oreste che, inseguito dalla
Erinni, si sposta dal tempio di Apollo, che lo aveva spinto al
matricidio, a quello di Atena dea della “saggezza e della sapienza”.
Questa interviene, fondando il tribunale dell’Aeropago,
per tentare di ricomporre la lite, e invitando Oreste a discolparsi. La
parità dei voti espressi dai giurati, per decisione di Atena, porta
all’assoluzione del matricida. Atena placa la furia delle
Erinni, a cui garantisce onori eterni, e
assegna loro il compito di proteggere Atene dalle discordie civili. Le
Erinni accettano diventando “benevole” e trasformandosi in Eumenidi.
È questa trasformazione che indica il passaggio da un’epoca in cui
prevale il diritto materno a un’altra in cui prevale quello paterno.
Apollo che ha difeso il matricida Oreste adduce una prova sconcertante:
“È accanto a noi presente/un testimone, la figlia dell’
olimpo Zeus, / che non è stata nutrita nelle tenebre di un
grembo, / ma quale dea saprebbe creare un simile germoglio.” (vv
663-666).
Conclusioni
Pare
che il momento di frattura tra le società ginecocratiche
e quelle fallocratiche, conseguente alle
migrazioni di popoli indoeuropei, si collochi tra il 3500 e il 2500 a.C.
Il
primo documento giuridico nel quale si trova istituzionalizzata
l’inferiorità della condizione femminile è un atto legislativo del re Urukagina
2352/2342 a. C. circa, nel quale il sovrano, volendo riportare sulla
terra l’ordine voluto dagli dei, vieta alle vedove di risposarsi e
prevede che le donne irrispettose o disobbedienti nei confronti degli
uomini siano sfigurate.
Altro
documento, databile tra il 1796 e il 1750 a.C., proveniente dalla
Mesopotamia, è il Codice di Hammurabi,
composto da 282 leggi di cui 75 riguardano
il matrimonio, la posizione e gli obblighi sessuali delle donne. Questo
scritto sarà la base di partenza per la legge ebraica che arriverà a
sancire la completa proprietà della donna da parte dell’uomo.
Al
1205 circa, risale un documento di Gueda Lagash,
dove si legge che le donne, se provenienti da famiglie povere, possono
essere avviate alla prostituzione commerciale per saldare i debiti della
famiglia,, se provenienti da famiglie nobili
sono considerate merce di scambio per alleanze e matrimoni. In breve le
donne diventano strumenti di cui la famiglia dispone a pieno titolo e i
loro servizi sessuali parte fondamentale delle loro prestazioni
lavorative.
L’affermazione
delle società patriarcali, avvenuta tra il 3500
e il 2500, si può considerare una lunga autentica rivoluzione in
conseguenza di quei radicali mutamenti che investirono non solo la sfera
religiosa, ma la società nel suo insieme. Attorno al 3000 a. C.
infatti, cominciò a imporsi una figura divina maschile, che
lentamente soppiantò la Grande Dea a favore di un dio maschile creando
le basi per la subordinazione della donna all’uomo.
Sicuramente
la forza impetuosa e devastante che accompagnò quella nuova visione
della vita e del mondo, meglio si radicò e
si accrebbe con l’avvento dell’Ebraismo in cui si riscontrano precise
tracce di fallocrazia.
L’ebraismo
e la casta sacerdotale ebraica, in tempi meno remoti rispetto alle
invasioni dei popoli indoeuropei, contribuirono in maniera determinante
nell’affermazione delle società patriarcali. Il dio ebraico non è la
Grande Madre di tutti, è un dio che parla all’uomo e solo con lui
stringe un patto dandogli in dono la fertilità e il possesso della
terra, quella terra che la Grande Madre
aveva dato a tutti: “Voglio dare a te e alla tua progenie questa terra,
dal fiume d’Egitto fino al grande fiume Eufrate”. La donna è esclusa dal
patto tra l’uomo e Dio e dal quel momento in poi sarà ora demonizzata
ora vissuta come un “essere inferiore”.
“La
donna e la dea hanno perso la loro autonomia, la loro importanza e il
loro potere praticamente allo stesso tempo,
vittime di un mondo che cambia, dove gli uomini si sono rafforzati
grazie al controllo dei mezzi di produzione, della guerra e della
cultura, divenendo gli unici detentori e guardiani della proprietà
privata, della paternità, del pensiero, e insomma, dello stesso diritto
alla vita” [1].
Bibliografia
L.
Rangoni, Il culto del femminile nella
storia, Xenia.
P.
Rodriguez, Dio è nato donna, Roma, 2000.
R.
French, Gli
antichi e la natura, Genova 1999.
A.A.
V.V., Le Grandi Madri, a cura di G. Gallino
Milano 1989.
J.J.
Bachofen, Il matriarcato, ricerca sulla
ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici,
Torino 1988.
Nota
[1] P. Rodriguez, Dio è nato donna, Roma 2000, pag 22/23
***
Dal sito "Empatia" http://www.empatiadonne.it 25 Settembre 2013 dc:
Le ragioni del Matriarcato
di Elena Bevini
Il
matriarcato ha una storia millenaria alle spalle anche se, in una
società patriarcale come la nostra, ci ritroviamo a parlare di ciò con
una gamma molto ristretta di documentazione, sulla quale purtroppo sono
state fatte molte speculazioni.
Quando parliamo di matriarcato i più si
soffermano solo a una semplice definizione: potere della madre, invece,
se si compie uno studio più approfondito, si scopre una storia e una
cultura molto interessante, che tutti, soprattutto le donne, dovrebbero
conoscere.
CARATTERISTICHE:
Una
società matriarcale si basa sull’agricoltura e comprende sia tecniche
appartenenti al paleolitico sia tecniche complesse di coltivazione. La
donna ha il potere sulla terra, sull’amministrazione delle ricchezze e
sugli alimenti. Le ricchezze non si accumulano mai sotto una famiglia
sola, poiché c’è la suddivisione dei beni e la compensazione economica;
inoltre in alcune occasioni festive i clan più ricchi devono privarsi di
parte della loro ricchezza in cambio però di onore e prestigio sociale.
LA FAMIGLIA:
La
società è divisa in grandi gruppi famigliari chiamati clan (fino a 100
persone), i cui nomi vengono presi da quello della madre. I giovani che
si sposano non devono allontanarsi dalla casa della madre, al massimo
possono andare nel clan confinante. Gli uomini non vivono con le mogli,
ma sono ospiti delle loro case in certe ore della giornata. I figli
portano il nome della madre e quindi non sono “propri” del padre, ma
possono essere “propri degli uomini” tali i figli delle loro sorelle che
hanno lo stesso nome loro. Le donne hanno il potere di tenere i beni e
amministrare il sostentamento del clan. L’aumento di popolazione è
fortemente controllato, non si hanno mai forti aumenti, anche perché
tutto dipende dall’ampiezza del territorio. All’interno della famiglia
le questioni private le decidono uomini e donne di comune accordo. Per
le decisioni tra clan si riuniscono le matriarche oppure esse mandano
uomini come messaggeri a rappresentarle.
SOCIETÀ:
In una società matriarcale non esistono le gerarchie, non sussistono
rapporti di forza tra clan. Non esiste la rivendicazione o la proprietà
privata o le minoranze nei confronti di maggioranze schiaccianti o il
contrario.
FEDE:
I componenti del clan hanno la fede nella reincarnazione; ognuno è
convinto che dopo la morte sarà riportato in vita da una delle donne del
clan. I bambini quindi sono visti come reincarnazione degli antenati. Non
esiste la visione patriarcale dualistica spirito-natura, per cui non
vedono la natura solo come una risorsa da sfruttare. Tutto è divino, anche
la terra, non esiste la visione morale del bene e del male che deve essere
escluso dalla società e nessun sesso considera l’altro inferiore, maligno
o poco dotato.
NASCITA e INVASIONI:
In Italia il matriarcato nasce in Sardegna, in epoca etrusca, creato da
popoli provenienti soprattutto dall’Asia e dall’Africa che per, diverse
ragioni (oltre al clima anche le invasioni della società patriarcale)
hanno dovuto in seguito emigrare in posti isolati del pianeta. In
Sardegna, essendo l’isola un territorio al sicuro da possibili invasioni,
il matriarcato ha avuto forte espansione, soprattutto nel neolitico, con
la costruzione di navi, nuove tecniche di lavorazione, costruzione di
utensili, nuove arti.
Oggi esistono pochissime società matriarcali, che rischiano di scomparire
totalmente causa la cultura e gli etnocidi. Le poche società sopravvissute
sono in India, Asia orientale, Africa, America centrale e del nord.
Tutti territori fuori dall’Europa, continente con maggior intolleranza sia
da un punto di vista religioso sia da un punto di vista
politico-culturale. Infatti con l’avvento delle grandi e sanguinose guerre
di colonizzazione, le persecuzioni, l’intolleranza del cattolicesimo e la
sua espansione, le innovazioni tecnologiche e le distruzioni ambientali,
le società matriarcali sono state costrette ad estinguersi o a
rifugiarsi in territori fuori dal mondo, come le montagne, le foreste, le
isole o i deserti.
RIFIUTO DEL MATRIARCATO:
La società patriarcale ha sempre esorcizzato l’idea di una società
matriarcale, di una forma di comando “al femminile”, sin dall’antichità,
da cui scaturiscono miti e leggende come quella delle Amazzoni o delle
Lemnie, società di donne che appunto per questo motivo hanno
caratteristiche mostruose, selvagge, che avevano una forza magica
misteriosa, erano crudeli, uccidevano gli uomini dopo la riproduzione e
uccidevano anche i figli maschi. Le Lemnie inoltre divoravano carne cruda
e tornavano alla “normalità solamente tornando a vivere con gli uomini”.
DIFFERENZE COL PATRIARCATO:
Al contrario, il patriarcato è sempre vissuto come società dell’accumulo
di ricchezze, dei pochi che comandano la moltitudine, dello sfruttamento
incontrollato della natura, di corruzione, e sin dall’inizio della civiltà
sono vissuti sulla concezione del più forte fisicamente che sottometteva
il debole, e ciò ha avuto conseguenze come la totale sottomissione della
donna, la creazione di ceti sociali molto distanti tra loro
economicamente, la schiavitù, il razzismo (indiani, ebrei, neri africani).
CONCLUSIONI:
Se il matriarcato, il potere delle donne, esiste, allora bisogna
rivisitare le concezioni anche odierne del patriarcato che partono da
caratteristiche “naturalmente femminili” e di “rispetto dei ruoli” e
prendere in considerazione i nostri valori indiscussi che adesso però
possono anche essere messi in discussione.
***
Dal
sito Università
delle
Donne, a suo volta ricavato dal
sito Fuorispazio,
1 ottobre 2013 dc:
Viaggio
nella
Sardegna matriarcale:
dee,
deinas,
janas, fadas, donni di fuora
di
Rosanna Fiocchetto
Le
origini
del nostro matriarcato vanno ricercate in Sardegna, culla della
più antica civiltà italiana. La crearono alcuni "popoli del
mare" pelasgici provenienti dall'Asia, dall'area egeo-cretese,
dal Tassili africano, dall'Iberia e dalla Celtia. Essi furono
costretti ad emigrare dai vari epicentri territoriali per varie
cause, ormai accertate dalle ricerche scientifiche e dalle
rilevazioni satellitari: disastri naturali (tra cui il biblico
diluvio universale, generato dall'onda d'urto di un asteroide
che si abbattè sulla terra, il terremoto/maremoto che sconvolse
l'area minoica, e la desertificazione sahariana) e le
aggressioni delle prime orde patriarcali indoeuropee. Si tratta
di quei mitici "giganti" (la parola viene dal greco e significa
"figli della Madre Terra") che si dispersero nel Mediterraneo
diffondendovi il culto della terra e delle acque, il
megalitismo, la metallurgia e la cultura matrilineare."Due
popoli, discendenti degli antichi giganti, vennero ad occupare
in epoche diverse le regioni fertili, ospitali e ancora poco
abitate della penisola italiana: i Sardi e poi gli Etruschi"
(1). La grandezza (1900 km. di coste), la centralità e la
difendibilità della Sardegna ne fecero in epoca post-diluviana
un rifugio privilegiato. Dalla miscela etnica sarda si sviluppò
una civiltà propulsiva, tutt'altro che chiusa: "dall'isola
salparono navi che, per prime, crearono una rete di
comunicazioni con la penisola, portandovi tecniche avanzate,
arti, conoscenze e una visione magica e metafisica della vita"
(2).
La
civiltà
matriarcale ha avuto in terra sarda uno sviluppo e una
persistenza eccezionali, ancora scarsamente conosciuti. I
ritrovamenti archeologici, relativamente recenti, ne hanno messa
in evidenza la sorprendente dimensione soprattutto nel Neolitico
e nell'Eneolitico (6.000 - 1.500 a.C). Tuttavia la sacralità del
principio femminile si è conservata anche nei periodi
successivi. Durante l'età fenicia si è intrecciata al culto
della dea Tanit e, durante la colonizzazione punico-romana, al
culto di Demetra/Cerere. Inoltre, malgrado le persecuzioni
dell'integralismo cristiano, è stata tramandata fino alle soglie
dell'età cosiddetta moderna da una magica rete di donni di fuora
che, soprattutto nelle zone interne, hanno contribuito al
fenomeno antropologico del "matriarcato barbaricino".
Ne
ho
ripercorso le tracce insieme a Petra Bialas, che da anni si
ispira nelle sue ceramiche e sculture alle raffigurazioni delle
dee pre-patriarcali; e che è stata una compagna ideale in un
suggestivo viaggio-pellegrinaggio tra mare e monti, villaggi
neolitici abbandonati, remoti santuari, musei, pozzi sacri,
necropoli, nuraghi e luoghi carichi di energie psicofisiche (3).
Queste tracce, del resto, non sono difficili da trovare: sono
quasi ovunque, numerosissime e abbastanza intatte. I siti
preistorici anteriori alla fase nuragica sinora scoperti sono
oltre 120 e si condensano prevalentemente sul lato ovest e nel
centro dell'isola, tranne quelli di Orgosolo, Oliena, Dorgali,
Baunei e San Vito, ubicati a est. Sono caratterizzati dal
megalitismo: dolmen, circoli di grandi pietre, betili e menhir
con i seni, con dee graffite, con doppie spirali. Ma anche da
insediamenti in superficie o necropoli ipogeiche scavati nella
roccia calcarea: le domus de Janas, o "case delle fate". Esse
variano dalle piccole domus isolate, simili aille cavità
naturali dei "tafoni" scolpiti dal vento, alle decine di
ambienti decorati delle necropoli di Su Crucifissu Mannu,
S.Andrea Priu di Bonorva (III millennio a.C.), o Anghelu Ruju
presso Alghero. I rilievi planimetrici degli ipogei mostrano che
essi hanno una forma a utero, a uovo o a corpo di dea.
La
parola
Jana è comune in tutto il Mediterraneo: è la dea Jaune nei paesi
Baschi, l'etrusca Uni, le romane Juno e Diana, la cretesLe
società matriarcali tuttora esistenti le trovi sull’isola di
Sumatra, in Indonesia è il popolo dei Minangkabau, con tre
milioni di membri. Nelle minuscole isole coralline di San Blas,
di fronte alle coste del Panama in America centrale, abitano gli
indiani Cuna, un gruppo matriarcale. Sulle isole della
Melanesia, nel Pacifico, vive il popolo dei Trobriander,
anch’esso matriarcale.
Nel deserto del Sahara, i nomadi berberi Imazighen, altrimenti,
conosciuti come “tuareg”, sono sopravvissuti in condizioni
estreme come popolo matriarcale di pastori.
Le tribù matriarcali dell’America hanno cercato riparo dai
conquistatori nelle grandi foreste pluviali, dove sono riuscite
a sopravvivere. È questo il caso degli Arawak, sparsi un po’
ovunque nelle foreste. Nelle foreste pluviali dell’Africa
centrale vivono ancora oggi numerose tribù matriarcali, prime
fra tutte quelle dei Bemba e dei Luapula.
Particolarmente numerose sono inoltre le società matriarcali
distribuite nelle aree montane: ne sono un esempio i classici
matriarcati dei Khasi e dei Garo, sulle montagne del Khasi nel
Bengala e nell’India orientale, nonché diverse piccole etnie
sull’Himalaya, negli Stati di Ladakh, Bhutan, Nepal e Tibet.
Nelle interminabili catene montuose dell’Asia orientale si
trovano ancora alcuni popoli tipicamente matriarcali, quali i
Mosuo dello Yunnan, nella Cina sud-occidentale, e molti altri
che lo sono stati fino a poco tempo fa, come per esempio i Naxi.
Le montagne di Atlante, nel Nord Africa, hanno offerto riparo
all’antico gruppo matriarcale dei berberi. Anche nel deserto del
Sahara sono soprattutto i monti (come l’Ahaggar, l’Alr
Tassili-n-Ajjer, l’Adrar des Iforas) a dare asilo ai cosiddetti
“tuareg”.
Ben più vasto rispetto all’insieme delle società matriarcali
tuttora esistenti è invece il numero di residui o tracce di
antichi matriarcati che sono presenti in abbondanza in tutti i
continenti. Ciò riguarda anche l’Europa e i territori proprio di
fronte a casa nostra. Si tratta delle costruzioni di pietra
sparse nell’intera Europa della cultura megalitica, che fungono
da testimonianze architettoniche e, ancor più, sociologiche
dell’importante posizione occupata ancora oggi dalle donne in
queste aree. Tracce religiose del matriarcato europeo di un
tempo sono contenute in gran quantità nei miti e nelle leggende,
nelle tradizioni e nelle usanze. Anche nel nostro continente i
resti abbondano soprattutto sulle montagne, poiché queste furono
le più importanti terre in cui avevano trovato rifugio le
portatrici e i portatori della cultura matriarcale. Degna di
nota a tale riguardo è la grande catena delle Alpi con le sue
molteplici cime ma anche i Pirenei e la foresta bavarese, dove i
monti si congiungevano a grandi foreste impenetrabili, a creare
una vasta zona protetta protesa fino alla Boemia.
Nonostante l’apparato aggressivo di potere e dominio, i
patriarcati non sono stati in grado di annientare la struttura
sociale e la cultura dei matriarcati, siano stati questi ultimi
società nascoste o apertamente vissute. Oggi questo modello
sociale continua a riaffiorare in superficie.
A livello culturale queste società non sono caratterizzate dai
“culti di fertilità”. E ciò può forse far pensare
semplicisticamente all’assenza di un sistema religioso
complesso. Il concetto fondamentale di cosmo e della vita stessa
proprio dei membri di una società matriarcale
e la fede che essi esprimono attraverso numerosi riti, miti e
tradizioni spirituali è la convinzione nella rinascita.
Non si tratta qui della nozione astratta di trasmigrazione delle
anime che in seguito sarebbe emersa in seno all’induismo e al
buddismo, ma di un’idea di reincarnazione intesa.in termini
molto concreti: il membro di ciascun clan sa che, dopo la sua
morte, nascerà dal grembo di una delle donne del suo clan, nella
stessa abitazione del clan, nello stesso villaggio.
Ogni defunto ritorna nello stesso clan nelle vesti di un
bambino. Nelle società matriarcali vi è un grande rispetto per
la donna, poiché è la donna a garantire la rinascita.
È la donna che rinnova e perpetua la vita del clan. Questo
concetto sta alla base della visione matriarcale della vita. Si
tratta di un concetto che le popolazioni matriarcali hanno
elaborato sulla base dell’osservazione della natura. Ogni anno
in natura si susseguono i cicli della crescita, della fioritura,
dell’avvizzimento e di nuovo della rinascita della vegetazione.
Le popolazioni matriarcali credono che ogni pianta che in
autunno avvizzisce tornerà a vivere in primavera. Perciò, la
Terra è la Grande Madre che assicura la rinascita a tutti e che
a tutti dà nutrimento.
Lo stesso continuo ritorno si osserva anche in cielo: Tutti i
corpi celesti sorgono, tramontano e risorgono, ogni giorno e
ogni notte. Queste popolazioni percepiscono il cosmo come la
Grande Dea del Firmamento e della Creazione, impegnata in una
creazione continua, dalla quale scaturisce l’ordine del tempo. È
questa Dea a generare tutti gli astri a oriente e a tracciarne
il cammino nel cielo; è lei, con il suo potere, ad accompagnarli
alla morte a occidente.
Un bell’esempio di idea matriarcale di cosmo è quello offerto
dalla dea egizia Nut, la Dea del Cielo, che ogni mattina genera
suo figlio Re, il sole, e che ogni notte lo divora, per
riportarlo a nuova vita il mattino successivo. Nel cosmo e sulla
terra le popolazioni matriarcali osservano questo ciclo di vita,
morte e rinascita. Esse riconoscono lo stesso ciclo nella vita
umana, in base al principio matriarcale dell’unione tra macro e
microcosmo.
L’esistenza umana non è diversa dai cicli della natura, bensì è
soggetta alle stesse regole. Il concetto di natura e di mondo
umano è privo della mentalità dualistica patriarcale, che separa
lo “spirito” e la “natura” o la “società” e la “natura”.e Iune,
la Ioni asiatica. In molte domus de Janas del V e IV millennio
a.C., ma anche altrove, sono state trovate in grandi quantità
statuine di divinità femminili in argilla, alabastro,
calcarenite, caolinite, marmo, osso o arenaria quarzosa. Le più
antiche sono quelle tondeggianti della cultura di Bonu Ighinu
(Mara), di Su Cungiau de Marcu (Decimoputzu), Cuccurru S'Arriu
(Cabras), Su Anzu (Narbolia) e Polu (Meana Sardo). La statuetta
stetopigia di S'Adde (Macomer) è simile agli idoli ritrovati in
Anatolia e nel nord Europa. Nella cultura di Ozieri del IV
millennio a.C. le figure diventano piatte e stilizzate in forma
di T, con la parte inferiore a cono. Tra le dee, soprannominate
"cicladiche" per la loro impressionante somiglianza con altre
rinvenute nelle isole Cicladi, spicca la grande immagine della
"Signora Bianca" di Turrigu, Senorbì. Suggestiva e poetica è la
semplicità delle dee "a traforo", ricavate da sottili lastrine
marmoree. Moltissime le dee con le braccia aperte a croce, fino
alla minuscola dea-uccello di mezzo centimetro recuperata a
Ploaghe, esposta nel Museo Sanna di Sassari dietro ad una grossa
lente di ingrandimento. Le affinità con analoghi reperti in
altri luoghi distanti migliaia di chilometri dimostrano che la
cultura matriarcale era basata su un linguaggio omogeneo diffuso
in tutto il mondo, come ha affermato l'archeologa Marija
Gimbutas (4).
La
manifattura
di queste dee prosegue per tutta l'età del rame, su preziose
lamine dorate. E continuerà nell'espressione simbolica, sia pure
de-contestualizzata, attraverso i secoli. In filo diretto con il
Neolitico esistono ancora oggi persone, in Barbagia, che mettono
nella bara dei congiunti morti sa pipiedda o sa pizzinedda, una
piccola dea confezionata con la tela bianca o con la cera.
Oppure, anche in altre zone, è abituale l'usanza di intrecciare
con striscioline di foglie di palma sa mura, ovvero la Moira, la
dea che decreta il destino, per regalarla durante la Domenica
delle Palme.
Il
culto
della Grande Madre è protagonista anche in un singolare episodio
del megalitismo sardo: il santuario preistorico di Monte
d'Accoddi presso Porto Torres (2.700 a.C.), una piramide a
ziggurath che avvalora in modo inequivocabile l'ipotesi della
matrice etnica orientale. Altri sorprendenti risultati della
"strana barbarie sarda" (Deledda) sono le Tombe dei Giganti,
costruite con enormi lastre di pietra disposte a semicerchio
secondo un preciso schema di riferimento astronomico, e
collegate con un lungo corpo a galleria retrostante.
Bio-architetture con un isolamento a intercapedine, erano
orientate verso la Croce del Sud (allora visibile anche
dall'emisfero boreale) ed erette in corrispondenza di falde
acquifere e di forti flussi magnetici; la stele verticale
d'ingresso è conficcata nel punto di maggiore potenza. Venivano
utilizzate a scopo terapeutico con il procedimento
dell'incubazione: chi era afflitto da epilessia, disturbi del
sistema nervoso e traumi psichici vi dormiva per cinque giorni e
guariva con una vera e propria cura del sonno, indotto dalle
sacerdotesse con particolari sostanze soporifere e con sistemi
ipnotici.
Affascinanti
produzioni
dell'architettura megalitica sono i pozzi sacri, come quello di
Santa Cristina a Paulilatino (Oristano) del primo millennio
avanti Cristo, tagliato con inaudita precisione nella pietra
basaltica. Si entra in contatto con il potere taumaturgico delle
acque sotterranee scendendo una scala triangolare di 25 gradini
che porta al pozzo circolare. Qui una camera alta 7 metri è
sovrastata da un oculo attraverso il quale la luce della luna
magnetizza lo specchio d'acqua. Ogni 18 anni e sei mesi
(l'ultima volta il 24 dicembre 1988) la luna scende esattamente
in perpendicolare nel suo tempio; ma vi torna in modo meno
evidente ogni anno durante il plenilunio invernale, rendendo
così possibile la misurazione del mese lunare. Il triangolo
dell'ingresso è circondato da un recinto interno a forma di
toppa di chiave (un triangolo accostato a un cerchio, che è
anche il simbolo della dea Tanit), e da un altro recinto esterno
ellittico. Si tratta di un organismo a stretto contatto con la
natura, concepito come un orologio solare e lunare insieme, che
segnalava i solstizi e gli equinozi mediante la scala e l'oculo
del pozzo. Ai margini di esso, sono ubicate capanne circolari
abitabili e un grande ambiente collettivo di riunione a cerchio,
con una panca continua per sedersi addossata alle pareti di
pietre incastrate a secco.
I
nuraghi sono una presenza costante nel panorama sardo. Ne sono
stati inventariati oltre settemila, costruiti dal 1.800 al 500
a.C. Probabilmente il loro nome deriva dall'antico
sumeronur-aghs, fiamma ardente: sulle loro sommità si accendeva
il fuoco per fini rituali, ma anche a scopo di segnalazione. Da
ogni nuraghe se ne vedevano almeno altri due, il che assicurava
una efficacissima rete di comunicazione visiva e sonora, basata
sulla triplicità. Alcuni, come quelli del complesso Su Nuraxi di
Barumini (1.500 a.C.), sono integrati da un pozzo e circondati
da abitazioni circolari. Prima di diventare le fortezze dei
guerrieri Shardana, furono i templi astronomici di popolazioni
pacifiche: nel solstizio d'estate il sole illumina la cella
interna formando un potente cerchio di luce. La loro imponente
struttura, a camere sovrapposte o laterali, accentrava energie
magnetiche dal sottosuolo, ed era anch'essa un luogo di pratiche
sacre e terapeutiche.
Presso
i
nuraghi ci si riuniva, si giurava, si facevano oracoli, si
celebrava la luna e si dormiva per curarsi, come nelle Tombe dei
Giganti. E nei villaggi nuragici, come quello di Serra Orrios
con le sue settanta capanne, la presenza sacrale dell'acqua,
insieme all'energia del fuoco, è una costante. A Barumini una
donna ci ha raccontato una curiosa leggenda riguardante Eleonora
d'Arborea, la sovrana legislatrice che nel 1392 compilò la Carta
de Logu (un codice di giustizia che, tra l'altro, prevedeva
sanzioni durissime per gli stupratori). Sembra che Eleonora,
percorrendo un passaggio segreto sotterraneo, si recasse spesso
nell'antica zona sacra di Su Nuraxi, che allora era interamente
nascosta dalla terra, e dove si svolgeva la trebbiatura del
grano.
I
fenici arrivarono sulle coste sarde intorno al 1.000 a.C. e si
stabilirono soprattutto lungo il versante occidentale. Fondarono
i loro primi insediamenti permanenti (Cagliari, Nora, Sulci,
Tharros, Bithia) tra la fine del IX e l'VIII secolo a.C., e in
seguito si integrarono nella colonizzazione cartaginese (510
a.C.). Alla Tanit fenicia, la "nutrix", erano dedicati i
"tophet", siti a cielo aperto recintati con muretti dove si
seppellivano i bambini nati morti oppure deceduti entro sei mesi
dalla nascita, insieme a piccoli animali.
Sono
luoghi
commoventi che i Romani invasori, e conquistatori dal 238 a.C.
al 476 d.C., cercarono di infangare nello stesso modo in cui
screditarono i druidi celtici, cioè inventando la menzogna di
sanguinosi sacrifici infantili alla dea - smentita dalla
presenza di embrioni. Nel "tophet" di Monte Sirai presso
Carbonia (IV-II sec. a.C.) sono affiorate stele di dee che
stringono al petto un fiore di loto, e un'altra con
Tanit-Astarte che indossa la maschera contro gli spiriti maligni
e il tamburello per le danze funebri: un motivo che si ritrova
anche in parecchie statuine bruciaincensi di piccole dimensioni.
A Nora venne costruito un grande tempio di Tanit (IV-II secolo
a.C.). Ma il ritrovamento forse più singolare della fase
fenicio-punica è quello del santuario di Bithia (Domusolemaria):
decine di figurine votive in argilla che indicano la parte del
corpo malata, plasmate durante l'ipnosi terapeutica indotta
dalle bithiae (letteralmente: donne con le pupille doppie), le
sacerdotesse-sciamane del tempio.
Infine
risalgono
all'epoca romana - che costruisce radi insediamenti sparsi su
tutta l'isola, in funzione di controllo - numerose statuine di
Demetra/Cerere a schema cruciforme, oppure con fiaccola e
porcellino. Sono generalmente bruciaincensi in argilla, prodotti
con un'iconografia molto simile sin dalla fase punica (di
cultura greca), dal 500 a.C. al 100 a.C. (5).
Le
tradizioni
sarde e le sue leggende, che furono studiate con attenzione
dalla grande scrittrice Grazia Deledda, sono strettamente legate
alle radici matriarcali. Gioca in esse un ruolo fondamentale lo
sciamanesimo femminile risalente al periodo neolitico. Fino alla
prima metà del Novecento, le deinas continuarono ad essere
"veggenti stimate e temute allo stesso tempo" (6). Chiamate
anche videmortos per la loro capacità di comunicare con i
defunti, si iscrivono nella genealogia delle janas, le
sacerdotesse che non potevano appartenere ai comuni mortali, ma
solo a se stesse. Si racconta che, quando las fadas (le fate)
del Monte Oe scendevano a mezzanotte a ballare nella piazza del
paese, se qualche uomo cercava di toccarle veniva schiacciato da
una maledizione: Ancu ti tocchet sa musca maghedda! ("Che tu sia
punto dalla mosca maghedda!", un insetto letale). Il loro
corredo magico comprendeva lo specchio, il setaccio o vaglio, il
velo, gli arnesi da tessitura e naturalmente le erbe, gli
unguenti e le sostanze che favorivano la trance, tra cui il
giusquiamo, la belladonna, la datura, l'olio di ginepro, l'
Orrosa 'e cogas (Rosa delle streghe), la peonia e il fungo
Amanita muscaria (in dialetto, "allucinato" si dice tuttora
muscau).
I
loro poteri erano il dominio del fuoco, il contatto con gli
spiriti, l'oracolo, la capacità di visione a distanza e di
guarigione, l'estasi e la trance (andare in calazonis), il volo
magico. Queste pratiche, esercitate apertamente ancora nei primi
secoli del cristianesimo, non cessarono mai del tutto e
sopravvissero sotterraneamente anche ai 767 processi intentati
dell'Inquisizione tra il 1562 e il 1688, l'80% dei quali
riguardavano "fattucchiere e sortileghe". Le più perseguitate
furono le streghe di Castel Aragonese (oggi Castelsardo); gli
inquisitori individuarono come luogo del sabba la misteriosa
località della piana del Coghinas, dove attualmente si trovano
le terme di Casteldoria.
Alla
repressione
cristiana resistè tenacemente anche l'antichissimo culto lunare
di Diana, di cui si trovano vistose tracce nella toponomastica
dell'isola (Lunamatrona, Nuraghe Luna, Cala Luna, Monte Luna,
Monte Diana, etc.). Nel mondo romano Diana Lucina fu
ufficialmente onorata fino al IV secolo dopo Cristo con la
solenne processione notturna del 13 agosto, fatta da donne che
tenevano in mano una torcia. Durante il medioevo, la venerazione
della dea venne ripetutamente investita dagli anatemi della
Chiesa e demonizzata.
Ma
Artemide-Diana,
in realtà, era una figura protettrice: "puniva coloro che
violentavano le vergini e si macchiavano di ogni altra
sopraffazione, così come puniva coloro che esercitavano la
caccia in modo selvaggio, effettuando una distruzione senza
limiti. Anche i cuccioli, al pari dei bambini, erano sotto la
sua protezione e dovevano essere risparmiati" (7). La dea
assisteva le partorienti e le balie, presiedeva alla crescita di
ogni genere. Veniva invocata fino a una cinquantina di anni fa
in filastrocche che si ripetevano quasi invariate in numerosi
paesi della Sardegna centrale. Le ragazze le recitavano sedute
in cerchio e battendo le mani, oppure in girotondo ad occhi
chiusi, dopo aver guardato la luna: Luna
luna, paraluna, paristella / ses sa bella de muntanna... Luna
luna, porchedda luna / porchedda ispana, sette funtanas /
sette chilivros, appiccamilos / sutta sa mesa, luna Teresa, /
Teresa luna, dammi fortuna. E tuttora, nella Bassa
Gallura, si saluta la luna nuova con l'esclamazione Luna
miraculosa, dammi la grazia di l'anima.
Tra
le
donni di fuora che appartengono alle leggende popolari c'è la
gioviana, un genio tutelare femminile che si presenta nelle case
la notte del giovedì quando le donne si attardano a filare, per
aiutarle; la vampiresca coga o sùrbile, frutto della
criminalizzazione cristiana, ma percepita anche come una Nemesi
che impone la giustizia; le panas o pantamas, spiriti di donne
morte di parto che durante la notte si recano lungo i corsi
d'acqua; la Saggia Sibilla che abita con altre janas nella
grotta del Carmelo presso Ozieri, e alla quale la tradizione
orale attribuisce il segreto della lievitazione del pane e
l'invenzione dei fermenti lattici; le fadas che vivono nei
nuraghi e tessono la buona e la cattiva sorte con un telaio
d'oro (8).
Ma,
al
di là dei racconti leggendari, le ultime depositarie di un
sapere antichissimo hanno costituito sino a pochi decenni fa una
presenza e una realtà molto diffusa tra la popolazione sarda.
Non accettavano denaro, solo prodotti in natura. Abili
erboriste, le orassionarjas guarivano anche con formule magiche
dette verbos e usavano tre grani di sale per scacciare il
malocchio. Le anziane accabadòras (dal fenicio "hacab", mettere
fine) accompagnavano nel trapasso della morte e abbreviavano le
dolorose agonie, oppure dopo le esequie si recavano al cimitero
per "chiudere la casa", girando tre volte la punta di una grossa
chiave sulla tomba. Tre donne (una giovanissima, una matura e
una vecchia) svolgevano insieme un rituale terapeutico contro le
febbri perniciose recandosi ad un trivio, togliendosi una
pianella e tracciando a terra con essa cerchi e croci. E anche
attualmente esistono deinas che praticano la cosiddetta
"medicina dello spavento" a chi è oppresso da incubi o
ossessioni, oppure adottano la gestualità lustrale dell'acqua
gettata dietro le spalle.
Passata
dagli
antichi splendori ad un destino di "eterna colonia" sfruttata e
maltrattata la Sardegna ha mantenuto il suo profumo, emanato
coralmente dalla vegetazione dell'isola che ancora sopravvive
alla criminale violenza degli incendi, e pazientemente si
ricrea: mirto, cisto, tamerici, zafferano, euforbia, fiordaliso
spinoso, fichi d'india, peonie selvagge, gigli di sabbia,
rosmarino, fillirea, ginepro, oleandro, boschi di querce da
sughero, lentischi, eucalipti, pini, corbezzoli, ulivi e
olivastri. Non sono svanite neanche la fierezza e la forza delle
donne che la abitano, così come non sono state cancellate nel
quotidiano contemporaneo le immagini delle dee, ancora
riprodotte con naturalezza e orgoglio nelle manifatture di
oreficeria o sull'etichetta di un vino. Non a caso, in questa
regione le cooperative femminili in qualsiasi settore sono una
realtà diffusissima e abituale: la presenza degli uomini nel
lavoro, mi ha spiegato concisamente una ragazza con un fermo
sguardo da jana, non è indispensabile.
Note:
(1)
Cfr.
Giovanni Feo, "Prima degli Etruschi - I miti della Grande Dea e
dei Giganti alle origini della civiltà in Italia", Stampa
Alternativa, Viterbo 2001.
(2)
Feo,
op.cit., p.21.
(3)
Ringrazio
Petra in particolare per avermi spinto a spericolate escursioni
che non avrei mai fatto da sola e per avermi salvato la vita
almeno un paio di volte, trattenendomi dal precipitare in
qualche voragine che non avevo visto.
(4)
Cfr.
Marija Gimbutas, "The Language of the Goddess", 1989; in
italiano "Il linguaggio della dea - Mito e culto della Dea Madre
nell'Europa neolitica", Longanesi, Milano 1990.
(5)
Tutte
le statuine delle dee e gli altri reperti citati sono visibili
nei musei sardi, principalmente nel Museo Archeologico di
Cagliari e nel Museo G.Sanna di Sassari.
(6)
Dolores
Turchi, "Lo sciamanesimo in Sardegna", Newton Compton, Roma
2001, p.15.
(7)
Turchi,
op.cit., p.80.
(8)
Su
tutte queste figure di donni di fuora, cfr. l'analisi di Turchi,
op.cit.
***
Dal
sito
dell'Associazione
Culturale
Exatic Venus, 8 Ottobre 2013 dc:
Il
matriarcato
Per matriarcato s'intende un potere
politico o economico che, nell'ambito di una comunità, è demandato alla
madre più anziana. Molti studi hanno ipotizzato che il matriarcato possa
essere stata la forma di governo delle comunità umane primitive. Ciò
soprattutto in considerazione dei vari culti delle Dee Madri diffusi
specialmente nel Mar Mediterraneo centro-orientale, e quindi della
prevalenza del femminile nella spiritualità e nella monumentalità. Si
suppone dunque, a questo proposito, che all'uomo spettassero le funzioni
pratiche di sussistenza, mentre alle donne l'organizzazione sociale e la
vita spirituale.
Nonostante su queste teorie vi siano
delle controversie, sorte dall'impossibilità di provare la reale
esistenza del matriarcato come vera e propria istituzione, resta
comunque innegabile la centralità del femminile nei culti, nei misteri e
nelle adorazioni di carattere religioso.
Ma non ci interessa dimostrare la
supremazia economico-politica della donna in epoca arcaica, bensì di
rilevare quelle che sono le caratteristiche di un periodo in cui
dominava un tipo di "coscienza matriarcale" dalla quale si sviluppa
l'intera storia della coscienza umana. In questa direzione Neumann
afferma che "il matriarcato non è da considerarsi solo come dominio
dell'archetipo della Grande Madre, ma anche come una situazione psichica
totale nella quale l'inconscio e la femminilità dominano, mentre la
coscienza e la maschilità non sono ancora pervenute all'autonomia e
all'indipendenza".
Nel matriarcato prevale un tipo di
coscienza primordiale femminile che fa sì che nella donna regnino
l'istintualità, il senso di sacralità del proprio corpo, della natura,
un magico mistero femminile che anticamente era simboleggiato dalla
Luna.
In quell'epoca remota, la dimensione
femminile poteva esprimere liberamente la propria natura in modo
incontaminato, vivendo il proprio ruolo di donna e soprattutto di
sacerdotessa, conformemente all'archetipo femminile, senza limitazioni o
prevaricazioni di sorta. In questo contesto, caratterizzato dal culto
della Grande Madre o Dea, che veniva venerata in ogni aspetto della
natura e della vita, la natura stessa e la donna erano considerate sacre
e inviolabili. La Dea veniva continuamente celebrata attraverso riti,
culti della fertilità, orge sessuali, feste di primavera ad essa
consacrati. La sessualità aveva pertanto un carattere sacro ed era
considerata la più evidente manifestazione della Dea nel corpo e
nell'anima delle donne. L'eros rappresentava dunque una forza magica
estremamente potente, in quanto causa della generazione dell'universo e
della realtà in tutte le sue manifestazioni.
La ierogamia, cioè l'unione sacra tra il
maschile e il femminile, assumeva allora un'enorme importanza e portava
a sentire all'interno del proprio essere, attraverso la congiunzione di
due principi opposti, il potere, nel contempo fecondativo e generativo,
dello stato androginale, considerato il modo di essere in assoluto più
sublime e divino.
La scrittrice Ada d'Ares ipotizza che
"quest'epoca fu caratterizzata da una profonda solidarietà tra le donne,
da un senso di comunione e di uguaglianza nell'armonia, nella gioia e
nella libertà" in cui era assente ogni "manifestazione personalistica e
individualistica di gelosia o di un rapporto univoco con un certo uomo
piuttosto che con un altro".
Si suppone inoltre che nelle antiche
società matrilineari non esistesse nemmeno la concezione del possesso
dei figli, che erano considerati i figli dell'intero gruppo o
dell'intera tribù.
Probabilmente anche le ricchezze e le
fonti di sostentamento naturali appartenevano a tutto il gruppo sociale,
di cui le anziane e venerabili sacerdotesse erano il gruppo dominante:
il potere decisionale che esse detenevano si basava unicamente sulla
loro sacralità, ovvero sul loro potere di avere un magico rapporto con
il mondo divino.
Come abbiamo già affermato, in questo
mondo essenzialmente femminile predomina la Luna, il cui crescere,
decrescere e ritornare fu per l'umanità antica il più impressionante di
tutti i fenomeni celesti. Come simbolo della figura celeste crescente e
sempre in mutamento, la Luna è Signora archetipica delle acque,
dell'umidità e della vegetazione, cioè di tutto ciò che vive e
cresce. È inoltre Signora della vita psico-biologica e perciò del
femminile nella sua essenza archetipica, il cui rappresentante umano è
la donna terrena.
In ogni esperienza essenziale della sua
esistenza il femminile si riconosce legato alla luna e identico ad essa,
dipendente e ad essa congiunto. Il rapporto del femminile con la luna si
rispecchia nel rapporto di quest'ultima con la terra e con la vita. Ma
più interessante è il significato spirituale che la luna assume nella
coscienza matriarcale: l'ispirazione e l'intuizione sono l'espressione
del potere spirituale dell'inconscio, del mondo notturno femminile, nel
quale la sua oscurità si illumina improvvisamente per ispirazione.
L'archetipo lunare rappresenta dunque la quintessenza della coscienza
matriarcale.
La consonanza e l'accordo che esiste tra
la donna e la luna ha, nella sua dipendenza dal ritmo, dai cicli e dalle
fasi crescenti e decrescenti, qualcosa di fortemente musicale. Ed è per
questo che la musica e la danza assumono un ruolo molto importante
nell'atteggiamento e nella formazione della donna dominata dalla
coscienza matriarcale, e nell'accordo fra Io, femminile e spirito
terrestre che lo determina.
Le donne anticamente erano sacerdotesse e
sciamane. Lo sciamanesimo e altre manifestazioni simili, fino alla
profezia, erano prevalentemente passivi, la loro attività era più che
altro un "ricevere" e non un agire volontario. Fin dai primordi infatti,
alla donna è proprio, per natura, l'atteggiamento fondamentale
ricettivo-inglobante. Nella coscienza matriarcale, lo stesso atto di
"capire", a differenza della coscienza patriarcale, in cui il conoscere
consiste in un processo intellettuale, significa "concepire". Le cose da
comprendere devono dapprima penetrare nella coscienza come un atto di
fecondazione e di concepimento, dopodiché "affiorano". Il conoscere è un
conoscere vitale che un tempo era oggetto dei misteri e della religione,
e che appartiene al campo della saggezza e non della scienza. In questo
caso la coscienza ha sede nel cuore e non nella testa.
La luna è anche Signora del processo
creativo, che si svolge non sotto i raggi cocenti del sole, ma nella
fredda luce riflessa della luna: la notte e non il giorno è il tempo
della procreazione. Ad essa appartengono l'oscurità e il silenzio, il
segreto, il tacere e l'essere velati. Anche la bevanda e la pillola
dell'immortalità, il sapere supremo, l'illuminazione e l'estasi sono i
frutti rilucenti dell'albero lunare, del mutamento nella crescita.
Tutte le antiche divinità femminili erano
dunque molto probabilmente ipostasi diverse della Dea lunare,
considerata il simbolo di un modo d'essere femminile divino, archetipo
che ancora domina la coscienza femminile. Tutti gli antichi misteri ad
essa dedicati erano preclusi agli uomini e le donne stesse che vi
partecipavano dovevano sottoporsi a dei riti d'iniziazione attraverso i
quali dimostrare di esserne degne.
Tali misteri, che avevano lo scopo di
promuovere una profonda trasformazione interiore che permettesse il
ricongiungimento con la Dea, avvenivano sicuramente in situazioni
e atmosfere magiche, d'incanto, d'intimità, di libertà, di eros sacro e
armonia. Erano momenti in cui la donna entrava in contatto con la parte
più profonda ed essenziale del proprio essere e, attraverso un processo
alchemico che si compiva per mezzo di specifici rituali, recuperava la
propria essenza divina diventando essa stessa una Dea.
Nei secoli il matriarcato e la coscienza
matriarcale sono stati soffocati e soppiantati dal dominio
patriarcale che si è imposto su tutti gli aspetti della vita, compreso
quello spirituale. Basti pensare alle nuove religioni che negli ultimi
due millenni si sono imposte in occidente, in cui le Dee non compaiono
perché sostituite da divinità maschili o dall'idea di un unico
Dio-Padre, mentre le donne sono state relegate, nelle religioni pagane,
a ruoli di poca rilevanza, come ad esempio le antiche Vestali, oppure
estromesse dalle gerarchie ecclesiastiche, nelle grandi religioni
monoteistiche. Di più, nella cultura patriarcale la donna, repressa
nella sua natura istintiva, libera, sensuale, è diventata il simbolo del
peccato, la seduttrice, la tentatrice, colei che circuisce l'uomo e lo
spinge all'errore e alla caduta allontanandolo da Dio.
È vero che la totalità è raggiungibile
solo tramite un'unificazione degli opposti, maschile-femminile,
coscienza patriarcale-coscienza matriarcale, sole-luna, che conduce a
una sorta di completamento. Per questo concludiamo con un racconto
ebraico che racconta che all'inizio della creazione il sole e la luna
erano della stessa grandezza, ma che successivamente la luna rimpicciolì
e il sole divenne la stella dominante. Dio promise allora alla luna: "Un
giorno tu sarai nuovamente grande come il sole e la luce della luna sarà
come la luce del sole".
Bibliografia:
D'Ares Ada, Alla
ricerca della Luna, Edizioni
della Terra di Mezzo, Milano,1997
Neumann Erich, La
psicologia del femminile,
Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 1975
***
Dal
sito
Le
voltapagina, 10 Ottobre 2013 dc:
Matriarcato
come
assenza di gerarchia
civiltà femminili/ginocrazia
di
Marisa Distefano
La parola “matriarcato” ha sempre provocato infinite diatribe e polemiche.
Noi qui non ce ne occuperemo. Dovremmo invece compiere lo sforzo di
immaginare la parola “matriarcato” non come una sorta di “patriarcato
femminile”, ma piuttosto come un termine indicante società ginocratiche o
civiltà femminili in cui il potere non si manifestasse nelle forme
strutturate e rigidamente gerarchizzate proprie delle società patriarcali,
ma sotto forma di riti che celebravano il culto della “Grande Madre”
(Madre Terra, madre Cielo/ Luna/ Notte, ecc.)
L’Archetipo
della
Grande Madre
L’analisi degli archetipi, la descrizione
del loro farsi visibili attraverso i riti ed i miti dell’umanità è
compito della psicologia analitica. Chi non abbia esperito direttamente,
attraverso la propria psico-analisi, la realtà archetipica, troverà
assai difficile la comprensione teorica e pratica degli archetipi,
questi potenti signori che, alimentando il flusso straripante
dell’inconscio collettivo, sotterraneamente governano la nostra vita.
La psicoanalisi, quando parla di
“immagine primordiale” o di “archetipo della Grande Madre”, non si
riferisce a una entità concretamente esistente nello spazio e nel tempo,
ma ad una immagine interiore che agisce nella psiche umana. Questo
fenomeno psichico ha la sua espressione simbolica nelle raffigurazioni
della Grande Dea Femminile nell’arte e nei miti di tutto il mondo.
L’emergere di tale archetipo e la sua
attività possono essere osservati nel corso di tutta la storia umana:
nei riti, nei miti e nei simboli dell’umanità primitiva, così come nei
sogni nelle fantasie e nelle raffigurazioni creative di persone sane e
malate del nostro tempo (come risulta evidente in tanti disegni e
dipinti di schizofrenici).
La divinità maschile (“ Dio”) che
attualmente domina in tutte le grandi religioni monoteiste e patriarcali
è solo una trasformazione recente ( 3000 a.C.) del culto della Dea che
ha caratterizzato la civiltà matriarcale/ femminile durante un ben più
lungo periodo – documentato dal 30.000 a.C. fino a circa il 1500 a.C.
La Dea preistorica, nei suoi diversi
aspetti, esprime una cultura omogenea, pacifica, creativa e di grande
sintonia con la natura. In questa lunghissima “civiltà della Vulva” non
c’è quasi traccia di figure maschili: le decine di migliaia di
ritrovamenti archeologici effettuati in tutto il mondo sono
prevalentemente simboli e statuine femminili ed animali.
Del resto, anche le moderne ricerche
biologiche sul genoma umano hanno dimostrato che il DNA femminile
(cromosoma X) risale ad oltre 143.000 anni fa, ed è quindi di quasi
centomila anni più antico di quello maschile (cromosoma Y), comparso sul
nostro pianeta circa 59.000 anni fa.
Oggi, riteniamo certo che il patriarcato
– schema pressoché universale della società umana – si fonda su due
scoperte essenziali dell’antichità: la successione piuttosto recente
dell’agricoltura maschile (con l’aratro) a quella femminile (con la
marra) e, più tardi, la sconvolgente scoperta del ruolo maschile nel
processo della fecondazione. La degradazione dell’antica sovrana ha
inizio con la scoperta della paternità.
Prima di questa certezza biologica, né il
possesso delle tecniche agricole, né, poi, quello della terra portarono
alla caduta totale del potere e della venerazione del sesso femminile,
considerato sacro.
In questo percorso dalla sovranità alla
caduta del Femminile lo studio delle tecniche e dei miti ci fa da guida:
“...Ishtar e Cibele, Demetra e Cerere, Afrodite, Venere e Freya non sono
che delle personificazioni tarde delle antiche dee della terra la cui
fecondità produceva la fertilità dei campi. Il sesso di queste divinità
rivela che, in origine, l’agricoltura e la donna erano strettamente
legate. Quando l’agricoltura diventò l’occupazione principale
dell’umanità, le dee della vegetazione regnarono senza concorrenti. La
maggior parte dei primi dei appartengono al sesso femminile; la
promozione di divinità maschili allo stesso rango fu senza dubbio il
riflesso, fra le divinità, della vittoria del patriarcato”. (Will Durant
Storia della
Civiltà: l’Oriente Mondadori
ed.).
Abbiamo, dunque, una ricchissima teogonia
femminile con cui confrontarci: chi negli anni ’80 parlava di “miseria
femminile” mettendo l’accento sull’assenza di un mondo simbolico di
riferimento per le donne, rispetto al mondo maschile, ricco dei simboli
che – nei secoli - si è costruito, certo dimenticava di guardare a
quel mondo di miti, simboli ed archetipi
che tuttora fecondano l’inconscio collettivo e vivono dentro ognuna di
noi.
Vediamone alcuni più significativi:
...Io canterò la Terra, Madre universale
dalle solide basi Antenata venerabile che nutre sul suolo. Tutto ciò che
esiste... È a Te che spetta dare ai mortali la Vita e riprenderla
loro...(inno omerico);
...La” Madre dei Canti”, la madre di
tutto il nostro seme, in principio ci generò. Essa è la madre di ogni
razza umana......È la madre dei tuoni, dei fiumi, degli alberi, di ogni
sorta di cose. È la madre dei canti e delle danze, dei frutti e dei
fratelli maggiori. Essa è la madre degli animali, l’unica, quella della
Via Lattea.......
È la madre delle piogge, l’unica che
abbiamo. Lei sola è la madre delle cose, lei sola!...(canto degli Indios
Kagaba, Colombia)
LA LUNA
Artemide; Astarte; Ishtar; Iside; Ecate;
Cibele; Demetra; ...
...In principio la Luna era fusa col
Sole, costituiva col sole una “sinarchia”, la “Barca Solare”.
Spiritualmente la Luna era uguale al
Sole; i due principii si opponevano come due poli del tutto
equivalenti...
Ma sopraggiunge la grande catastrofe
cosmica, la Luna si scinde dal Sole,(“....e Dio separò la luce dalle
tenebre...e pose i luminari maggiori in cielo....” ) e si definisce nel
suo isolato dominio notturno dando inizio all’ “Involuzione Cosmica,”
prima fase della “Caduta”...
L’analogia si ripercuote sull’Uomo
Cosmico, dove il Maschile - Sole si scinde dal Femminile - Luna, in un
fronteggiarsi di Luce - Tenebra, Giorno - Notte, opposto e
complementare. È il drammatico evento della scissione dell’individuo
unitario, dell’Uno originario: dal primo Adamo fu tolta e distinta la
prima Eva, il maschile si stacca dal femminile.......
MITO DI ISHTAR –
Babilonia
...Ishtar, dea lunare, regnava tutto
l’anno e la sua azione rendeva fertile la terra.
Essa aveva un assoluto potere sulle cose
viventi. Tammuz, suo figlio, personificava tutta la vegetazione
terrestre. Al momento della pubertà, Tammuz diventa il virile amante
della madre lunare che si abbandona al profondo amplesso notturno.
Tuttavia, proprio Ishtar, col passare degli anni, condanna a morte
Tammuz e così, al volgere del solstizio estivo, Tammuz muore....La madre
lunare prende il lutto per un mese, profondendosi in lamenti e digiuni.
Finché non intraprende – con le sue donne - il viaggio verso gli Inferi,
nel regno del Non - Ritorno, per liberare il figlio...
(mistero edipico, regressione
autodistruttiva, trionfo della nostalgia. L’abbraccio fra Luna e figlio
nel buio notturno/ viaggio a ritroso nelle acque amniotiche, Calore del
corpo materno, sogno fusionale, perenne infanzia...)
Ishtar passa attraverso gli Inferi e, man
mano, viene privata dei suoi gioielli e, con essi, perde totalmente le
forze; e mentre essa è agli Inferi, sulla
Terra si abbatte la disperazione: animali e uomini non possono più
moltiplicarsi né desiderano più l’amore. Solo col ritorno di Ishtar
sulla Terra, la fertilità ritorna, rigogliosa... ( R. Sicuteri: Astrologia
e Mito - Astrolabio)
MITO DI DEMETRA
E PERSEFONE
“...Persefone viene tenuta riparata dalla
madre in una caverna difesa da due serpi. Ha tre sorelle: Psiche, Atena
e Artemide ed il giorno in cui le sue tre sorelle raccolgono con lei il
rosso papavero per festeggiare le sue prime mestruazioni Ade, il dio
degli Inferi, la rapisce e la porta sottoterra, provocando la grande ira
di Demetra:”
“...Ebbene, se questo dev’essere il
naturale destino delle fanciulle, che perisca tutta l’umanità! Che non
vi siano più raccolti, né semi, né frumento, se questa bambina non mi
viene restituita!...”
Vediamo qui la prima scissione fra il
Femminile - terra - vita: Demetra ed il Femminile - terra - tomba :
Persefone ed anche il primo conflitto fra una società ginocratica, ad
agricoltura femminile ed il nascente patriarcato.
.....Ma il dio Sole, maschio e
patriarcale, sembra giustificare il rapimento: “....Perché lamentarsi
del destino naturale delle giovani di abbandonare la casa della madre,
perdere la verginità e fare figli?” Ma Demetra è irremovibile: Persefone
resterà sterile e così i campi e tutta la terra... (non è stato ancora
scoperto il processo della paternità).
Alla fine il compromesso e l’accordo:
Persefone trascorrerà sei mesi sulla terra con la madre e sei mesi con
Ade (significato immediato: la vegetazione è sotterranea per circa sei
mesi dell’anno e visibile gli altri sei). Ma anche: l’Uomo e la Donna
concludono un contratto che suddivide la gestione della terra
sostentatrice, come il sole e la luna/Demetra, dividono il tempo in due
e regneranno insieme sulle prime civiltà urbane, agricole e pastorali: è
l’esordio del semi - patriarcato. Il destino di Persefone pesa, poi,
anche sulla sorte che le sue sorelle scelgono per sé:
Psiche decide di subire la legge solare,
amerà Amore, ma si vedrà imposte le stesse tenebre che Ade ha imposto a
Persefone.
Atena si vota al celibato, rinasce dal
cervello di Zeus (invidia del parto) e diventa una“donna superiore,
”intellettuale e sovrana, incaricata di importanti missioni sociali come
la coltura dell’ulivo e l’osservanza dei patti: Atena è la “donna
emancipata,” il tipo di donna - alibi che fa onore alla società
patriarcale e da essa accortamente destinata a rimanere minoranza.
Artemide è, al contrario, una sovversiva
ed una solitaria: diversamente dalla sorella sfugge gli onori della
città e nasconde nei boschi la sua libertà da amazzone, portando come
diadema un quarto di luna (che non è più la sfera del mondo posata sulla
fronte di Iside, incoronata di frumento) corre a caccia nei boschi alla
testa delle sue ninfe ed in Tracia diventa “Cotito” la patrona dei
maschi omosessuali. Lei stessa, lesbica, ama la ninfa Callisto, fonda
popolazioni di Amazzoni che le renderanno omaggio dalle foreste celtiche
fino alle rive del fiume scita e lei, la donna che non ha marito, porta
alle donne gli insegnamenti dell’ostetricia, della pratica medicinale
con le piante e la conoscenza dei veleni vegetali di cui si ricorda
Medea... (F. D’Eaubonne, Le
Donne
prima del Patriarcato - Felina
ed.)
STORIA DI NEITH,
LA CREATRICE - Egitto
Neith (Nut), la Notte, la dea uraniana,
la dea - cielo, madre di tutti gli dei, rappresenta in tutto il suo
splendore la Madre Originaria, quella che:
“.....Dava vita agli dei ed agli uomini,
ella era......quella che all’inizio dell’universo aveva fatto uscire
Aton dal Nulla, colei che era quando nient’altro esisteva ed aveva
creato ciò che esiste dopo essere nata ella stessa....”
Nella sua forma primitiva, Neith ricorda
quella Montagna - Madre il cui culto era onorato a Creta ed ispirò
l’oracolo di Dodona e che fa dire ad illustri studiosi che ...”siamo in
presenza di un culto che tende al monoteismo e che dà il primo posto ad
una religione femminile.” Cosa che, fra l’altro, smentisce il
pregiudizio secondo cui il monoteismo compare con il patriarcato semita
degli Ebrei.
Neith, nella sua forma notturna, è
considerata, fin dalla IV dinastia, ora madre ora figlia di Rà poiché la
notte succede al giorno ed il giorno alla notte.
È lei il potere sovrano che dirige ogni
forma di vita e di morte. Eterna, è la creatrice di sé stessa
“...personificante fin dai tempi più remoti il principio femminile
creatore della sua propria esistenza; è la prima e più antica forma di
monoteismo, Iside (che con Neith, a volte, è identificata) non è che il
volto umano di questa onnipotenza, come Cristo è l’incarnazione di Dio -
Padre.
Poi la metamorfosi...Neith passa dallo
stato di Volta Celeste a quello di Vacca Sacra:
Nù, il Nulla, prega Neith di prendere Rà
sulle sue spalle per soccorrere la sua estrema vecchiaia.“...
Neith rispose: E come, Nù, padre mio?”
Ma obbedì docilmente. Si trasformò in
vacca e pose la maestà di Rà sulla sua schiena. E dopo questo contratto
di alleanza, che lo riconciliò con gli uomini superstiti, il grande Rà
ritornò verso la Vacca Celeste per salire sulla sua groppa. Allora Neith
si alzò sulle quattro zampe e si inarcò come una volta, ma il troppo
peso la piegò e domandò di essere sorretta. Rà, a questo punto, disse:
“...Sù, figlio mio, mettiti
sotto mia figlia Neith per sorreggerla
affinchè possa portarmi. Mantienila sulla tua testa e sii il suo
pastore!...”. Sù obbedì e Neith fu rassicurata. Essa rappresenta la
volta celeste e l’universo ebbe finalmente il cielo da dove Rà, il dio
onnipotente, si occupò di organizzare quel nuovo mondo che, dalla groppa
della vacca, scopriva smisuratamente ingrandito. Stabilì la propria
residenza in due luoghi, il Campo delle Erbe prima ed il Campo del
Riposo poi”. (Marguerite Divin, Racconti
e
leggende dell’antico Egitto, ed.
S.A.I.E ).
Niente può simboleggiare più chiaramente
il passaggio dall’antica ginocrazia al patriarcato, dal vecchio
monoteismo di principio femminile al culto maschile.
Coloro che adesso decidono e comandano
sono il Padre e il Figlio. Il Nulla, padre di tutte le cose, colui che
“era prima che vi fosse niente”, dà
ordini a Neith, la Notte, che <docile > li esegue e quando si
piega sotto il peso del dio solare Figlio - Padre, è il figlio di lui
che la sostiene e diventa il suo “pastore“.
Da cosmo celeste è diventata animale,
animale sacro, certo, ma sottomesso al pantheon degli dei maschi!
Nel Testo
delle Piramidi, Rà ha “deposto
nel corpo di Nut il seme che doveva germogliare in lei”. E il Faraone si
chiama “toro del Cielo” perché è l’incarnazione del maschio dominatore,
della virilità, della forza. Dunque, si tratta proprio di un
patriarcato.
STORIA DI ISIDE
“...Inizialmente Iside non era una dea ma
solo la serva del più grande dei Faraoni, Rà, l’uomo - dio. Ogni
mattina, Rà saliva sulla barca solare che, a mezzogiorno, lo portava ad
un’altra imbarcazione che, a sua volta, al crepuscolo lo portava alla
Regione degli Inferi.
Lungo la strada si vedeva sbarrare il
cammino da Apopi, il grande serpente che provoca le eclissi di sole e
allora bisognava battere le mani, dire le preghiere e suonare una musica
assordante come per spaventare i coccodrilli del Nilo. E Apopi, ferito
dai raggi del dio dorato, si coricava di nuovo in fondo agli abissi.
Questo avveniva quando Rà abitava ancora
sulla Terra ed era sottoposto alle leggi dell’invecchiamento, come ogni
forma vivente.
E quando giunse al declino, carico del
peso degli anni, Iside, che aspettava la sua ora, si alzò nell’ombra.
Con la saliva che colava dalla bocca del vecchio dio impastò un po’ di
terra a immagine della Serpe Sacra, l’animò con il suo soffio e recitò
la formula magica che dà la vita. Quindi le fece mordere Rà al tallone.
Qualche tempo dopo venne a guarirlo con
tutta la sua scienza di dottoressa sapiente. Ma per riuscirci bisognava,
secondo le alte leggi della Conoscenza, pronunciare il nome del malato.
E Rà, che porta tanti nomi, in realtà ne ha uno solo, onnipotente e
segreto, che contiene l’essenza stessa del suo Essere.
Saperlo e dirlo equivale a possedere il
suo potere (...non pronunciare il nome di Dio invano!....)
Rà, vinto, lo rivelò a Iside che gli
diede, sì, la salute ma divenne, con questo stratagemma, dea ed
onnipotente...”
In questo mito si ritrovano parecchie
eredità che, dall’Egitto, passeranno al Mosaismo giudaico: la perfidia
femminile, la serpe sua complice ed il segreto sacro del nome divino che
non deve essere pronunciato.
Il dato significativo che emerge, a
questo punto, sembra questo: il patriarcato nascente cerca di screditare
il Diritto delle Madri, cioè il vecchio potere di Neith e della grande
dea agraria Iside.
In seguito, l’invenzione della marra e
dell’aratro saranno una prerogativa di Osiride, che lascia alla
Moglie - Sorella il solo dominio delle
erbe medicinali.*
L’identificazione di Apopi con Pitone, il
serpente matriarcale, e di Rà con l’Apollo asiatico, il dio della
vendetta che vince Apopi senza poterla distruggere, è pure fuori dubbio.
Quando, poi, Rà diventa definitivamente
dio, lascia la Terra e stabilisce la sua residenza, contemporaneamente,
in due domini, gli stessi che rappresentano i due poli della ginocrazia:
il Campo delle Erbe( fertilità ) e il Campo del Riposo (morte ) ....!
Sebbene il suo pantheon sia andato
rapidamente maschilizzandosi, il culto della Dea - Madre è rimasto, più
a lungo che in qualsiasi altra cultura, il perno della civiltà egiziana
ed il suo fascino si protrae per tutto il periodo del semi -
patriarcato, esercitando una interazione continua con la struttura
economica e sociale di origine agraria dell’Egitto.
Iside, in particolare, godette di una
straordinaria devozione: essa può essere assimilata a tutte le dee
egiziane, come è chiaro dall’appellativo di “dea dagli innumerevoli
nomi”.
È la personalità di Iside che viene
onorata e celebrata a preferenza delle divinità maschili, in Egitto ed
in tutti i Paesi che subiscono l’influenza culturale egiziana, sino a
Roma.
“....La vittoria senza precedenti del
culto isiaco sull’opposizione ufficiale e il suo persistere nei primi
tre secoli dell’era cristiana testimoniano la profonda e sincera
emozione religiosa che tale devozione suscitava nei fedeli”.
Il culto aveva come scopo di domare la
carne per ottenere delle percezioni spirituali più chiare. Questa idea
era talvolta poco apprezzata dai mariti che temevano l’avvicinarsi dei
“puri dies”, i giorni in cui le loro mogli, per prepararsi ai riti di
Iside, andavano a dormire sole su casti letti...
La personalità di Iside aveva una
diffusione universale in tutti i centri importanti del vasto impero
romano e, soprattutto le donne, trovavano in questa giovane e graziosa
regina e madre un oggetto di devozione mistica che soddisfaceva i loro
bisogni religiosi più di ogni altra figura sacra....” (E. O.
James: Le
culte de la déesse - Mère, Payot
Ed. )
Ora, i “bisogni religiosi” potevano anche
essere una formula di comodo: le donne, ormai sconfitte dell’era
patriarcale, si impossessavano di ciò che era rimasto del culto della
Dea - Madre per poter esercitare, anche se periodicamente ed in modo
effimero, la libera gestione del proprio corpo e, in parte, della
natalità, che una volta erano loro dominio assoluto.
Le due storie di Iside e di Demetra
concordano, concludendosi entrambi con la trasmissione dei poteri
agrari, messaggio molto più chiaro nel mito greco che in quello
egiziano: gli uomini si impadroniscono della fertilità - fecondità.
Il patriarcato nasce con la scoperta del
mistero della procreazione: Iside, infatti, con il suo potere divino è
riuscita a riunire tutti i resti dello sfortunato corpo di Osiride,
tranne uno, il fallo.
La sua potenza, dunque, fallisce nel
mettere al mondo, da sola, un maschio.
Come mai, allora, in Egitto, i diritti
delle donne vengono rispettati fino ad un’epoca tarda, la loro libertà
sessuale è quasi assoluta, la loro possibilità di fare carriera è quasi
unica fra le società dell’antichità?
Diodoro Siculo sostiene che il contratto
del matrimonio egiziano esige l’obbedienza del marito alla moglie.
I beni si trasmettevano per discendenza
femminile ed anche in epoca tarda il marito cedeva alla moglie, per
contratto di matrimonio, tutti i suoi
beni ed i redditi futuri. Lo scriba Satni, di Menfi, si vede rispondere
dalla bella che ha chiesto in sposa: “...Io non sono una schiava! Fai
firmare ai tuoi figli un contratto secondo cui non possano avanzare
pretese sui miei beni!
Uno dei documenti più antichi in
proposito è il testamento di una certa Neb - sent che lascia la sua
terra ai figli, risalente alla III dinastia.
IL SEMIPATRIARCATO
– LA CADUTA
Le donne egiziane si servivano senza
ipocrisia non solo della loro libertà sessuale, ma anche della potenza
economica data loro dalla legislazione. L’iniziativa amorosa era una
loro prerogativa come si riscontra in tante lettere e poesie d’amore
indirizzate ad uomini e firmate da donne. È lei a offrire il matrimonio:
“...O mio bell’amico, desidero diventare
tua moglie e la padrona dei tuoi beni!” (Briffault: The
Mothers)
Come tra gli Ionii e i Cretesi, la donna
egiziana circola libera, senza accompagnatori, e mostra il suo corpo
nudo; come tra gli Etruschi, partecipa ai banchetti e alle danze e gode
di libertà sessuale; come fra i Celti sceglie il marito; come tra i
Cretesi, si dedica ad ogni sorta di attività lucrativa e conserva spesso
una funzione sacra in tutto ciò che riguarda i funerali e i riti di
fertilità e onora due grandi dee: Neith e Iside, che
rappresentano aspetti diversi e
complementari della Grande Dea, la sua doppia proiezione nei cieli. La
giurisdizione la favorisce sino ad un’epoca avanzata.
Sotto Dario la sorella maggiore è ancora
la tutrice legale in caso di morte dei genitori: è quello che Will
Durant definisce un “matriarcato attenuato”;*
*esemplare la storia di Amten, vissuta ne
3000 circa a.C. che è, approssimativamente, il periodo in cui si
instaurò il patriarcato nel mondo antico. Figlia di scriba, poi scriba
essa stessa e redattrice di ministero, percorse tutte le tappe della
carriera, diventando governatore di provincia, poi nomarca e morì
onorata come generale e “comandante delle Porte di Occidente”.
L’obiezione più frequente è che faraoni e
sacerdoti, cioè il potere supremo, siano uomini. Ma l’Egitto non si può
definire una ginocrazia. La Dea è una figura dominante in Siria, in
Mesopotamia, in Anatolia e nel bacino Egeo, ma non in Egitto.
Il suo diritto, fino ai Tolomei, è
incontestabilmente matriarcale a tutti i livelli, tranne quello, più
alto di tutti, del regno che, per la precisione, viene collocato fuori
dal sociale in quanto appartenente al sacro (a parte il regno
eccezionale di una Faraona, Hatshepsut, della XVIII dinastia ). Il mito
di Osiride, subito associato al culto solare, porta direttamente al
Faraone inteso come incarnazione umana di Horus, figlio postumo del sole
e della fertilità. “...Di conseguenza, il re doveva la sua divinità e il
suo statuto agli dei che incarnava e che erano tutti maschi” (E.O.James
).
Il Faraone, dunque, rappresenta l’ordine
invertito del suo tempo e del suo spazio, e quest’ordine è tanto
femminista quanto quello giudaico - cristiano sarà misogino e ginofobo!
UN’ECCEZIONE:
HATSHEPSUT
Hatshepsut, che il padre chiamò sul trono
accanto a sé, regnò dal 1501 al 1479 a.C.
Riuscì a regnare facendosi redigere una
biografia agiografica che la proclamava figlia di Amon - Rà, il quale si
sarebbe presentato a sua madre “in una nuvola di luce e di profumo” per
annunciarle l’incarnazione – per suo intervento – di una fanciulla che
doveva far risplendere il prestigio di Ammone sulla Terra.
Ci voleva questo intervento diretto del
dio nel processo della procreazione per rendere la principessa uguale ai
suoi predecessori reali. Neanche la condivisione del trono con il
Faraone - padre poteva sostituire questo diritto divino da cui proveniva
quella monarchia che faceva di ogni sovrano un “figlio di Horus” ipso
facto, senza bisogno che luce e profumo accompagnassero una tale
Annunciazione. Occorreva l’intervento del soprannaturale per rimuovere
l’ostacolo del suo sesso di donna nel regno più femminista della terra!
Che Hatshepsut sia stata uno dei più
grandi nomi della regalità egiziana, che in ventidue anni di regno abbia
riparato i danni inflitti al suo popolo dai re Hyksos, che abbia saputo
conquistare i mercati delle Indie e dell’Estremo Oriente, aprendo così
la via delle spezie e delle perle ai suoi successori sono fatti noti e
comprovati storicamente. Hatshepsut – poi – fu la più grande, ma non la
sola a regnare in Egitto: ricordiamo
Amenardis (sacerdotessa e principessa),
Shepenapt III e la figlia di questa, Nitokris.
È anche interessante sottolineare che,
dalla XVIII dinastia in poi, l’appellativo di “sposa di Dio” viene dato
alle regine tebane che diventano sacerdotesse supreme di Amon - Rà,
mentre le principesse reali assumono una dignità superiore a quella
rivestita da tutte le altre in precedenza.
E ciò avviene in un periodo che va dal
1545 al 1310 a.C., cioè molto dopo la dominazione degli Hyksos (1800 –
1600 a.C.) che con la loro influenza fallocratica degradano la posizione
delle donne e accelerano l’evoluzione del semi - patriarcato verso quel
patriarcato assoluto portato dai conquistatori greci e dai Tolomei.
Tutto avviene come se le possibilità
delle donne di accedere al trono ed all’altare costituissero un vaso
comunicante con la posizione civile ed economica delle donne comuni. A
partire dal regno di Hatshepsut l’Egitto perde, poco alla volta, il suo
carattere così originale di semi - patriarcato (o di “matriarcato
attenuato” ) per somigliare sempre più alle altre culture storiche dei
maschi, in cui le donne sono assoggettate alla legge del Padre ma vi
sfuggono se appartengono all’élite delle famiglie reali e della Chiesa.
Ora, che cosa ha prodotto la doppia
evoluzione - regressione dell’Egiziana relativamente al trono ed alla
cittadinanza?
La prima società egiziana predinastica è
totalmente agraria e integrata con l’allevamento; l’irrigazione è
primitiva, ma è già una società relativamente prospera, grazie alle
piene del Nilo e le comunità sono ad impostazione ginocratica (come
dimostrano le tante immagini della Grande Dea, la ceramica, l’assenza di
santuari ed anche le strutture giuridiche e sociali nell’Egitto delle
dinastie).
Mentre nelle varie società compaiono
innovazioni che mettono in forse gli assetti fra i sessi (le necropoli,
le strade, la metallurgia, ecc.), pace e isolamento protessero in modo
eccezionale le strutture culturali femminili egiziane; mentre nelle
altre civiltà antiche la comparsa delle classi sociali e la necessità
della guerra finiscono per comprometterle più o meno rapidamente.
Qui, al contrario, le classi sociali
– pur dentro ad un sistema di caste – godono di una specie di
democrazia di base che tiene ad una ripartizione abbastanza equa di
questa prosperità.
Per fronteggiare, poi, il pericolo
politico di una rivalità interna fra le Due Terre vi era, come fattore
essenziale di unità, l’esistenza di un sovrano unico, detentore di due
corone (=Iside con le due serpi sul capo).
Intanto eventi fondamentali (l’affermarsi
dell’aratro, il progressivo dominio sul Nilo e la scoperta della
paternità) guideranno il passaggio ad un semi - patriarcato prima e ad
un pieno patriarcato poi, segnato emblematicamente dall’innovazione
dell’eretico Faraone Akhenaton che instaurò un monoteismo maschile: il
culto solare di Aton.
La testimonianza forse più significativa
di questo passaggio dalla ginocrazia al patriarcato la troviamo ne LE
EUMENIDI.
Nelle “Eumenidi“ di Eschilo i due
principi del diritto materno e del diritto paterno sono rappresentati
dalle Erinni e da Apollo/Atena. Oreste uccide la madre per vendicare il
padre. Ora, chi vale di più il padre o la madre? Atena istituisce il
tribunale: le Erinni sostengono l’accusa contro il matricida, Apollo ne
assume la difesa, i concittadini di Oreste sono chiamati a decidere.
Le Erinni parteggiano per Clitennestra e
si appellano al diritto materno, Apollo difende Agamennone e sostiene il
diritto paterno:
ERINNI: ...Fu lui,
l’indovino, che ti guidò ad uccidere tua madre?.........
ORESTE: .....La
vergogna di due colpe ella aveva sopra di sé.
Come? chiarisci bene
ai giudici questo.
Uccidendo il marito,
uccise mio padre.
Ma tu vivi, e lei si
liberò della colpa morendo.
E perché lei, quando
ancora era viva, tunon la perseguitasti?
Non era dello stesso
suo sangue l’uomo che uccise.
E sono io dello
stesso sangue di mia madre?
E come ti nutrì ella,
sciagurato, dentro il suo ventre?
Tu rinneghi il dolce
sangue della madre?
Le Erinni non hanno punito il delitto di
Clitennestra: risulta evidente che esse ignorano il diritto del padre e
del marito. Esse conoscono solo il diritto della madre, il diritto del
sangue materno, e avanzano le loro pretese sul matricida in forza
dell’antico diritto e dell’antico costume.
Apollo, invece, ha imposto a Oreste il
matricidio per vendicare il padre, perché questa è la volontà di Zeus,
ed anche ora lo difende dalle Erinni, contrapponendo il diritto paterno
al diritto materno ed affermando la preminenza del primo:
“....Non è la madre
la generatrice del figlio, bensì è la nutrice del feto in lei seminato.
Generatore è chi getta il seme .....la madre è ospite che accoglie e
custodisce il germoglio. Padre uno può essere anche senza madre. Qui
stesso ne è testimone la figlia di Zeus Olimpio (Atena ) che non fu
allevata nel buio di un grembo materno; è tale rampollo quale nessuna
dea avrebbe potuto generare!...”
Le Erinni protestano:
“.....Tu hai distrutto gli antichi
ordinamenti del mondo, ingannando col vino le vecchie dee......”
Ma saranno sconfitte: i giudici votano, i
voti sono pari ma Atena interviene:
“...Io voto in favore
di Oreste. Madre che mi abbia generato io non l’ho. Il mio cuore,
esclusi i legami nuziali, è tutto per l’uomo. Io sono solamente del
padre. Il destino di una donna omicida del proprio sposo non m’importa:
lo sposo m’importa custode del focolare domestico. La vittoria sarà di
Oreste, anche se uguale il numero dei voti...”
Oreste viene assolto dal tribunale. È
questo il nuovo diritto dei nuovi dei. Apollo viene celebrato come “distruttore
delle
antiche Moire, distruttore delle antiche divinità”.
Fremendo per l’ira, la schiera divina
delle figlie senza prole della Notte vuole rifugiarsi nelle profondità
della terra, isterilire i campi ed i frutti del corpo, ma Atena riesce a
guadagnarle alla sua causa ed a riconciliarle con il nuovo diritto:
“.....E tu, dalla
gloriosa tua sede, presso la dimora di Eretteo, vedrai processioni di
uomini, processioni di donne, venirti ad offrire onori e doni quanti da
altre genti non potrai mai avere.......”
A questo punto, finiscono con l’accettare
di avere la propria sede e di svolgere la loro funzione accanto a
Pallade: esse, le dee primigenie, trasformate in potenze propiziatrici
della pace e della tranquillità e custodi dei legami familiari, d’ora in
poi amate e venerate dalle fanciulle, prepareranno loro le gioie del
matrimonio.
Una schiera di fanciulle e anziane madri
riconducono le riconquistate patrone del paese nel loro regno, giù
nell’Ade.
Moira e Zeus cooperano lietamente alle
fortune del popolo ateniese. Si conclude così la lotta fra il diritto
materno ed il nuovo diritto paterno: l’antico costume viene eliminato e
un nuovo principio ne prende il posto. Il legame privilegiato fra il
figlio e la madre viene spezzato – Gea e Crono / Rea e Giove, ma anche
con la figlia: da Demetra e Persefone si passa a Zeus e Atena - e l’uomo
si colloca accanto alla donna in posizione giuridicamente superiore.
E ancora:
La collina di Ares,
che viene designata, per sempre, da Atena come il luogo dove siederà il
tribunale per i delitti di sangue e dove, con Clitennestra, soccombe
l’antico Diritto Femminile, è la stessa località dove già le Amazzoni
posero il loro accampamento quando combatterono contro Teseo e la sua
città.
Le Amazzoni rappresentavano la più
perfetta realizzazione del diritto femminile; Teseo, invece, fonda il
suo nuovo Stato sul principio opposto. È con la lotta fra i due principi
e la vittoria di Teseo sulle Amazzoni che ha inizio la storia di Atene,
la storia della “ civiltà occidentale“ la nostra storia...
Il materiale è
liberamente tratto da:
-Roberto Sicuteri: Astrologia
e Mito-Ed. Astrolabio
-Eric Neumann: La
Grande Madre-Ed. Astrolabio
-Françoise D’Eaubonne: Le
Donne Prima del Patriarcato–Ed.
Felina
-Johann Jakob Bachofen: Il
Potere Femminile–Ed. Il
Saggiatore-Studio
-Luisella Veroli: Prima
di Eva–Viaggio alle Origini dell’Eros–Ass.
cult. “Melusine”
***
Le
società matriarcali tuttora esistenti le trovi sull’isola di
Sumatra, in Indonesia è il popolo dei Minangkabau, con tre milioni di
membri. Nelle minuscole isole coralline di San Blas, di fronte alle coste
del Panama in America centrale, abitano gli indiani Cuna, un gruppo
matriarcale. Sulle isole della Melanesia, nel Pacifico, vive il popolo dei
Trobriander, anch’esso matriarcale.
Nel deserto del Sahara, i nomadi berberi
Imazighen, altrimenti, conosciuti come “tuareg”, sono sopravvissuti in
condizioni estreme come popolo matriarcale di pastori.
Le tribù matriarcali dell’America hanno cercato riparo dai conquistatori
nelle grandi foreste pluviali, dove sono riuscite a sopravvivere. È questo
il caso degli Arawak, sparsi un po’ ovunque nelle foreste. Nelle foreste
pluviali dell’Africa centrale vivono ancora oggi numerose tribù
matriarcali, prime fra tutte quelle dei Bemba e dei Luapula.
Particolarmente numerose sono inoltre le
società matriarcali distribuite nelle aree montane: ne sono un esempio i
classici matriarcati dei Khasi e dei Garo, sulle montagne del Khasi nel
Bengala e nell’India orientale, nonché diverse piccole etnie
sull’Himalaya, negli Stati di Ladakh, Bhutan, Nepal e Tibet. Nelle
interminabili catene montuose dell’Asia orientale si trovano ancora alcuni
popoli tipicamente matriarcali, quali i Mosuo dello Yunnan, nella Cina
sud-occidentale, e molti altri che lo sono stati fino a poco tempo fa,
come per esempio i Naxi. Le montagne di Atlante, nel Nord Africa, hanno
offerto riparo all’antico gruppo matriarcale dei berberi. Anche nel
deserto del Sahara sono soprattutto i monti (come l’Ahaggar, l’Alr
Tassili-n-Ajjer, l’Adrar des Iforas) a dare asilo ai cosiddetti “tuareg”.
Ben più vasto rispetto all’insieme delle
società matriarcali tuttora esistenti è invece il numero di residui o
tracce di antichi matriarcati che sono presenti in abbondanza in tutti i
continenti. Ciò riguarda anche l’Europa e i territori proprio di fronte a
casa nostra. Si tratta delle costruzioni di pietra sparse nell’intera
Europa della cultura megalitica, che fungono da testimonianze
architettoniche e, ancor più, sociologiche dell’importante posizione
occupata ancora oggi dalle donne in queste aree. Tracce religiose del
matriarcato europeo di un tempo sono contenute in gran quantità nei miti e
nelle leggende, nelle tradizioni e nelle usanze. Anche nel nostro
continente i resti abbondano soprattutto sulle montagne, poiché queste
furono le più importanti terre in cui avevano trovato rifugio le
portatrici e i portatori della cultura matriarcale. Degna di nota a tale
riguardo è la grande catena delle Alpi con le sue molteplici cime ma anche
i Pirenei e la foresta bavarese, dove i monti si congiungevano a grandi
foreste impenetrabili, a creare una vasta zona protetta protesa fino alla
Boemia.
Nonostante l’apparato aggressivo di
potere e dominio, i patriarcati non sono stati in grado di annientare la
struttura sociale e la cultura dei matriarcati, siano stati questi ultimi
società nascoste o apertamente vissute. Oggi questo modello sociale
continua a riaffiorare in superficie.
A livello culturale queste società non sono caratterizzate dai “culti di
fertilità”. E ciò può forse far pensare semplicisticamente all’assenza di
un sistema religioso complesso. Il concetto fondamentale di cosmo e della
vita stessa proprio dei membri di una società matriarcale
e la fede che essi esprimono attraverso numerosi riti, miti e tradizioni
spirituali è la convinzione nella rinascita.
Non si tratta qui della nozione astratta
di trasmigrazione delle anime che in seguito sarebbe emersa in seno
all’induismo e al buddismo, ma di un’idea di reincarnazione intesa.in
termini molto concreti: il membro di ciascun clan sa che, dopo la sua
morte, nascerà dal grembo di una delle donne del suo clan, nella stessa
abitazione del clan, nello stesso villaggio.
Ogni defunto ritorna nello stesso clan nelle vesti di un bambino. Nelle
società matriarcali vi è un grande rispetto per la donna, poiché è la
donna a garantire la rinascita.
È la donna che rinnova e perpetua la vita
del clan. Questo concetto sta alla base della visione matriarcale della
vita. Si tratta di un concetto che le popolazioni matriarcali hanno
elaborato sulla base dell’osservazione della natura. Ogni anno in natura
si susseguono i cicli della crescita, della fioritura, dell’avvizzimento e
di nuovo della rinascita della vegetazione. Le popolazioni matriarcali
credono che ogni pianta che in autunno avvizzisce tornerà a vivere in
primavera. Perciò, la Terra è la Grande Madre che assicura la rinascita a
tutti e che a tutti dà nutrimento.
Lo stesso continuo ritorno si osserva anche in cielo: Tutti i corpi
celesti sorgono, tramontano e risorgono, ogni giorno e ogni notte. Queste
popolazioni percepiscono il cosmo come la Grande Dea del Firmamento e
della Creazione, impegnata in una creazione continua, dalla quale
scaturisce l’ordine del tempo. È questa Dea a generare tutti gli astri a
oriente e a tracciarne il cammino nel cielo; è lei, con il suo potere, ad
accompagnarli alla morte a occidente.
Un bell’esempio di idea matriarcale di
cosmo è quello offerto dalla dea egizia Nut, la Dea del Cielo, che ogni
mattina genera suo figlio Re, il sole, e che ogni notte lo divora, per
riportarlo a nuova vita il mattino successivo. Nel cosmo e sulla terra le
popolazioni matriarcali osservano questo ciclo di vita, morte e rinascita.
Esse riconoscono lo stesso ciclo nella vita umana, in base al principio
matriarcale dell’unione tra macro e microcosmo.
L’esistenza umana non è diversa dai cicli
della natura, bensì è soggetta alle stesse regole. Il concetto di natura e
di mondo umano è privo della mentalità dualistica patriarcale, che separa
lo “spirito” e la “natura” o la “società” e la “natura”.
commenti,
contributi e opinioni
E-mail
kynoos@jadawin.info